Introduzione di Alessandro Zaccuri a Abele di Lucianna Argentino
Collezione di quaderni di poesia “Le gemme” n. 15 anno 2015 (Ed. Progetto Cultura)
ISBN 978 88 6092-763-7
Delle vittime non si sa mai abbastanza. Anche perché́ gli scrittori – compresi quelli grandi, grandissimi – fanno di tutto per dissimulare la preferenza nei loro confronti. Quando qualcuno, come Ferruccio Parazzoli, rompe la consegna del silenzio, si rimane sorpresi, quasi fosse stata negata un’evidenza. Ma come, davvero per un autore la vittima è più im- portante dell’assassino? E tutta quella fatica per indagare e distrarre, per mescolare le carte e nascondere gli indizi? Se il problema è la vittima, tutto dovrebbe essere da subito più chiaro. Anzi, chiarissimo. Per smentire questo pregiudizio basterebbe, in realtà̀, una lettura disincantata di Delitto e castigo. Di Raskol’nivok, lo studente che per disperazione si trasforma in ladro e carnefice, Dostoevskij ci rivela ogni mi- nima intermittenza del cuore, ogni più riposto pensiero. Nulla o quasi, invece, viene detto a proposito delle due donne da lui uccise, l’usuraia Alëna e sua sorella Lizaveta, alla quale l’idiozia conferisce un’aura che sfiora la santità̀. È lei, dunque, che in modo più immediato richiama il destino di Abele, la prima vittima. Ma anche ad Alëna, che in vita poteva tanto facilmente essere considerata abietta, la fine violenta conferisce una nuova, inattesa purezza. Perfino lei, che parrebbe appartenere alla discendenza di Caino, è ora autorizzata a rivendi- care una parentela più̀ stretta con l’altro fratello. Torniamo tutti a essere nomadi, in punto di morte. Tutti fuggiamo dalla città che il progenitore di ogni strage ha fondato per noi.
Nel morente l’innocenza di Abele si mescola al rimorso di Caino, eppure di Caino si parla più̀ volentieri che di Abele, specie da qualche secolo a questa parte. Sostanzialmente equilibrata nel corso del Medioevo (quando ad avere la meglio era semmai l’ucciso, nel quale la teologia patristica aveva precocemente individuato una trasparente figura Christi), la disputa artistica e letteraria tra i figli di Adamo è da tempo posta sotto la crudele supremazia dell’uccisore. Non senza eccezioni notevoli e spesso addirittura notevolissime, tra le quali sarà il caso di segnalare almeno un romanzo di Miguel de Unamuno, Abel Sánchez (1917), e il racconto che inaugura l’avventura creativa di Elena Bono (1921-2014), quello straordinario Morte di Adamo dove il patriarca si affanna sul cadavere del figlio prediletto, intestardendosi ad assumere su di sé la responsabilità̀ della sciagura.
Si parla sempre di Abele, quando si parla di Caino: il dato è indiscutibile. Tuttavia accade di rado che ad Abele stesso sia restituito il diritto di parola (anche in Delitto e castigo, del resto, la povera Lizaveta è segnata da un impaccio prossimo all’afasia). Nel suo poemetto Lucianna Argentino ha avuto il coraggio di violare questa convenzione, scommettendo con forza sulla necessità di rendere ad Abele e ad ogni vittima il ruolo centrale che da sempre hanno conquistato con il sangue. Il risultato è una densa suite poetica, nella quale la vicenda terrestre dell’omicidio originario sconfina in improvvise ed esattissime aperture cosmologiche e celesti. Il segreto di Abele, in fondo, sta proprio qui, nell’universalità̀ di una condizione che, rivelatasi a ridosso dell’esilio dall’Eden, attraversa per intero la storia dell’umanità̀ e in qualche modo la anticipa, preannunciandola e nello stesso tempo interpretandola. È la ragione per cui, in un film sotterraneamente per- corso dall’indecisione tra Abele e Caino (The Tree of Life, 2011), il regista Terrence Malick ha voluto che le vicende minute di una famiglia si alternassero alle immagini grandiose della creazione. L’assassino che alza la mano sta per compiere un gesto di portata incommensurabile. Ma se la vittima non fosse pronta ad accogliere il colpo, tutto sarebbe vano: il dolore come la speranza.
Alessandro Zaccuri
*
Parlami madre, raccontami ancora
del tempo nel giardino che quando lo fai
nei tuoi occhi balzano gazzelle,
si alzano in volo farfalle, ruggiscono leoni;
le tue parole cantano, mi scorrono sotto pelle
ed è sangue di luce, è nostalgia feroce
che plachi col tuo fiato profumato di nardo e di cipro;
nella tua bocca è frusciare di arbusti,
frullo d’ali, è il passo del Dio quando viveva qui.
*
Lei tace e guarda lontano,
sente nelle mani la rovina,
le linee aggrovigliate senza pace.
È una bambina accucciata
accanto ad un dolore che non comprende appieno
perché́ c’è nata fuori, è nata prima,
in un luogo e in un tempo in cui tutto era cosa buona
e ogni cosa aveva un nome esatto e benedetto.
Sente lo smarrimento
la pena che è sostanza piena
di quanto la fa carne di un’assenza,
di nessun’altra carne
se vorrebbe strapparsela la costola
incarnita e dolente senza amore.
Il fianco un fosso scavato dalla separazione
- vuoto dell’incompletezza eppure campo
dove arare la riconciliazione.
Sentire le mani del Creatore
plasmarla nuova e tutta intera - di sé sola creatura
ossa delle proprie ossa
carne della propria carne -
così da poterne fare un dono
e non un vincolo né un destino,
a nulla sottomessa se non a se stessa
che spalla a spalla passeggiava con lui nel giardino.
*
Senza doglie nascemmo
il Dio ci fece – polvere dal suolo - come un artigiano
frutti del suo lavoro
e con noi s’è fatto padre inesperto e imprudente
a dire “non si tocca” a due bambini, in fondo.
Qui la voce le si incrina
qualcosa dentro, così come allora
continua a spezzarsi di nuovo ancora e ogni volta
in quel punto si ferma, rientra nel racconto come un’altra,
cambia voce e in lei si rinnova il travaglio
della generazione del tempo in grembo all’eterno,
l’entrata della storia nel suo corpo
attraverso la sua bocca - cisterna per la semina
e la raccolta di ogni parola e nome nuovo
fatti racconto e dunque cosa che s’avvera
passaggio dal principio divino all’inizio umano
che nel giardino era solo nascita
e la luce rideva toccando terra.
Tutto era evidenza, perfetta aderenza
di essere e apparire,
tutto era dialogo, era fede
in noi terra e soffio di Dio
era l’amen perpetuo.
Coltivare e custodire,
fare e ascoltare gli unici predicati,
misura e prova del nostro potenziale d’azione.
Là non c’era alcuno spazio da colmare
tutto era relazione e nesso, era radice...
Radice, era radice tutto quello che c’era,
era armonia, era unità.
Ma venne il serpente col frutto senza nome
a stanare il male, con l’oscura promessa,
il morso avido - voi già morsi da una fame innata
da un’inquietudine ingenua -
complice un refolo di vento mescolato al fiato del Dio
che assieme alla possibilità̀ di abitare il corpo
portò pulviscolo e polline
per la calcificazione delle ossa, colonne e architravi
a sostegno di tutta la bellezza e l’orrore futuri.
Prendemmo l’accelerazione dei corpi in caduta
e la caduta è ancora in ogni nostro passo perché́
un seme malvagio addentò noi aggrappati a zolle di terra
per timore del mistero, avvinghiati alla ragione
che ha strade profonde ma brevi.
Noi nascosti dentro il Dio nascosto
non crediamo di avere in petto un cuore
nel cui ventre sta la bellezza per diuturne fioriture
per la fecondità̀ dell’opera delle nostre mani
in competizione con il tempo per la giusta direzione del fare.
Lucianna Argentino è nata a Roma nel 1962. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: “Gli argini del tempo” (ed. Totem, 1991), “Biografia a margine” (Fermenti Editrice, 1994) con la prefazione di Dario Bellezza e disegni di Francesco Paolo Delle Noci; “Mutamento” ((Fermenti Editrice,1999) con la prefazione di Mariella Bettarini; “Verso Penuel “(Edizioni dell’Oleandro, 2003), con la prefazione di Dante Maffia; “Diario inverso” (Manni editori, 2006), con la prefazione di Marco Guzzi; “L'ospite indocile” (Passigli, 2012) con una nota di Anna Maria Farabbi. Nel 2009 ha pubblicato la plaquette “Favola” (Lietocolle), con acquerelli di Marco Sebastiani. Ha realizzato due e-book, uno nel 2008 con Pagina- Zero tratto dalla raccolta inedita “Le stanze inquiete” e nel 2011 “Nomi” con il blog “Le vie poetiche”. Il suo lavoro inedito “La vita in dissolvenza” (quattro poemetti- monologhi) è stato musicato dal chitarrista Stefano Oliva e, dal marzo 2011, presentato in vari teatri e associazioni culturali. Dal 2014 collabora con l'Ensemble Acquelibere con lo spettacolo “Almanacco indocile”.