Sulla terra scalzo (Ensamble 2021) di Fausto Celeghin
In molti, autori e fautori di poesia, hanno provato a rispondere alla ricorrente domanda degli spiriti pratici: “in un mondo di tecnica e di tecnologia avanzata, a chi e a che cosa serve oggi la poesia?”.
Io che, pur amante delle Muse, ho evidentemente concretezza caratteriale di base, non amo impegnarmi in discorsi teorici – tantomeno in polemiche – se non proprio tirata per i capelli: come sempre preferisco esemplificare. Talora basta infatti l’esempio di una vita riscattata dalla poesia – ai giorni nostri, non trent’anni fa – a dimostrare come l’amore per l’arte, l’impegno della scrittura in versi possano diventare la chiave di volta per mutare il destino di una esistenza segnata da eventi esterni di sofferenza, all’apparenza non suscettibili di soluzione. È il caso di Fausto Celeghin, colpito a quarantasei anni da una malattia seria, debilitante e progressiva, che in sette ulteriori anni si è molto aggravata, cagionando la continua entrata-uscita da ospedali, nel tentativo di ‘rappezzare’ un vivere fisico-mentale votato al peggio.
Nella scrittura di testi poetici, diventata a mano a mano consuetudine di vita quanto più peggiorava la malattia, l’autore non solo ha trovato una forma di cura nel colloquio proficuo con se stesso allo scopo di salvare una sua integrità di persona pensante e senziente che, fissata sulla carta, non è deteriorabile nel tempo, ma ha saputo ‘usare’ della malattia per superare ogni personalismo ed essere di aiuto ad altri in analoghe condizioni. Ha capito infatti che non serve né a sé né al prossimo piangersi addosso: diventava insensato per lui mettere al centro del mondo se stesso in quanto malato; al contrario i suoi versi potevano concretamente aprirsi verso la ricerca scientifica, farsi strada per avviare ulteriori studi nei confronti del suo male. Contemporaneamente Celeghin capiva che, nonostante potesse sembrargli agli inizi un’assurdità, la poesia che nasce dalla malattia deve assumersi un preciso compito morale e civile, creando intorno a sé forme di informazione, di coinvolgimento sociale, di collaborazione con le associazioni e col volontariato che si occupano della salute, spesso più capillarmente ed efficacemente di ogni intervento a livello statale.
La poesia quindi, come nel caso dell’autore, può diventare scopo di vita, portando a tutti, sani e malati, un messaggio comunicativo di speranza. Questo il messaggio, semplice ma concreto, che vale in sé e ritengo valga la pena di proteggere e di diffondere, soprattutto ora, nel periodo di pandemia acuta, in cui la società non si ritrova affatto migliore, anzi si avvoltola sempre più nei propri personalismi fino all’egocentrismo bieco, come la carta stampata e la tv ci mostrano quotidianamente.
Questo il motivo primo per cui propongo oggi il libro di Fausto Celeghin Sulla terra scalzo, pubblicato in collaborazione con l’Associazione Amici Parkinsoniani Piemonte Onlus, per le Edizioni Ensemble 2021, con la Prefazione di Ernesto Siciliano, responsabile di Maledetti poeti.
Il volume consta di cinque sezioni, proprio come sono catalogabili gli stadi della malattia dell’autore che, nel percorrere la penosa trafila in un crescendo di frustrazioni e sofferenze, percorre altresì, nell’alternanza delle sensazioni, la sua ‘educazione’ spirituale. Si alternano toni aspri, cupi di ribellione e di rifiuto ad una forma, se non di accettazione, di consapevolezza. Il sostegno degli amici, l’aiuto della medicina, della fisioterapia, della psicoanalisi aggiungono quel senso concreto, vitale, del proprio esistere come uomo e come poeta, che spesso sfugge a chi è seriamente malato: perché resto in vita? Perché e per chi?
Il lavoro di Celeghin è una forma di ‘evangelizzazione laica’, di filantropia, di civismo concreto, lavoro questo che, seppure suggerito – anzi obbligato – dal male, non perde il suo valore; viceversa: è da pochi saper spiegare la sofferenza, rivoltandola a scopi civili, volgendola alla salvezza morale oltre se stesso ma nei confronti di quella parte della società troppo spesso ghettizzata perché resa ‘diversa’ da amare circostanze della vita e quindi considerata più o meno zavorra sociale, peso morto di cui è giocoforza occuparsi, ma senza soverchio impegno.
Propongo alcune letture dalle varie sezioni del libro.
Da Zero Uno Enter:
Eco
Di’ qualcosa.
Un solo eco.
Una voce.
Un urlo che si accartoccia rabbioso,
contro la vetta di una montagna.
Un urlo che faccia franare,
l’aridità millenaria delle pietre,
ritrose ad accettare,
che qualcuno le abbia sconfitte.
Di’ qualcosa.
Non per parlare.
Ma per far sì che io esista.
*
Di nuovo il diavolo lo condusse con sé
sopra un monte altissimo
e gli mostrò tutti i regni del mondo
con la loro gloria e gli disse:
«Tutte queste cose io ti darò, se,
prostrandoti, mi adorerai».
Matteo 4,8:9
Fior di stella
Raccolsi un fiore in alta montagna.
I petali erano così belli,
profumati e sensuali.
Piansi.
Avevo interrotto un progetto di Dio.
La sera nel cielo cadde una stella,
aveva la forma del fiore,
e la coda delle mie lacrime.
Dopo molti anni
lo ritrovai.
Tra le pagine di Dostoevskij
giaceva lì: secco morto.
Nella notte quando il cielo è sereno,
osservo sempre i fior di stella.
Da Zero Due Me:
Cercando
Cercando di sopravvivere,
sui pericolosi rimpianti del cuore,
mi scopro integro,
e ancora colmo di ardore.
Nella lucentezza esasperata,
solo nel mattino delle ombre.
Le orme dei miei passi,
brillano come tizzoni,
si rincorrono,
e fuggono,
verso l’origine del bene.
Mi volto indietro,
e già non mi scorgo più.
Da Zero Tre Non Me:
Il giogo
Il giogo che umilia è un labbro ferito
che cela nella possibilità di un bacio una calunnia.
È barattare un amore impossibile con un vaffanculo.
È un viaggio fintanto per dove quando come alle porte di
Birkenau.
È che le bestie non sono le tue pulsioni ma quelli
che ti castrano per non averle.
È creare ipotetiche parole che non si riescono a pronunciare.
È appunto bla-h bla-i bla-j.
È insegnare a un analfabeta un verbo in un solo tempo.
È un libro che ti offende con la sua intelligenza.
Il giogo sono io,
che con la mia voce non vivo che per me,
e mi specchio come un ladro,
nell’acqua delle anime altrui.
Da Zero Quattro Mondo 2050:
Alberi 2020
Vegliano sul mondo.
Dai secoli alla luce,
dal silenzio dei suoni,
al frastuono dell’estinzione.
Dei loro rami flettono
al peso della neve.
Altri si fanno culla e dimora,
come amorevoli madri
di animali nella foresta.
Parlano senza labbra,
si riproducono senza contatti,
ci sussurrano la loro pazienza,
col silenzio etereo
che comunica con il cielo.
Ci danno i frutti della loro vita,
come una santa ci dona le sue preghiere.
*
Alberi 2050
Ora stanno gli alberi,
con le braccia profuse,
su dal cielo.
Si sente, loro malgrado,
un madrigale ben temperato,
lontano,
che canta l’aria.
Nei grovigli dissennati delle città,
vogliono ancora vivere,
per sostenere quel poco d’ossigeno
e vizio che gli abbiamo rubato.
Una donna passa,
coi piedi di radici,
e l’anima di foglie e terra.
Lì, lascia un fardello.
Da Zero Cinque Consolazione:
La risacca
La poesia è come te:
un mare in risacca.
Espandi e contrai
il ventre e il respiro.
In questo intermezzo
in cui ti ritrai,
accarezzi la rena
di onde, di limiti,
confini con sassi e conchiglie.
Sta lì la poesia,
nel suono che lasci,
che devo raccogliere in fretta.
Accosto l’orecchio,
ti sento cantare
mi affretto a rubare,
le poche parole
che riesco a annotare.
È lì la poesia
il ricordo di un suono,
che tu con le onde
cancelli e riscrivi.
Questo è tutto.
Quel poco di me che ho vissuto
tra uno stato di quiete
e un affanno di moto.
*
Consolazione
Se la consolazione attenderà,
a sfiorarci la spalla,
a percuoterci l’istinto leggera,
a parlare parole,
a dirci “non dire”,
non abbassare la guardia,
redarguirci di perseverare,
sperare e parole, parole.
Qualcuno,
a sussurri, a gesti, a pelle,
che tu esisti,
e suoni efficaci a mormorare
colori pastello,
vele spiegate a barricare mari,
e venti di maestrale a inventare corsari.
Gomitoli che si trasformano in maglia
e note in canzoni
e navi che conoscono acque a navigare.
Allora, solo allora,
avremo gambe agili e forti,
e braccia e pensieri
per partire dai porti senza armi,
e senza conquistare.
Le due poesie della prima sezione ondeggiano tra l’urlo rabbioso di chi non si rassegna al destino, e non intravvede nemmeno il minimo valore per la sua esistenza, e il bisogno di ritrovarsi nel creato, nel microcosmo di un fiore, nel macrocosmo del cielo stellato. L’accenno a Dostoevskij non può non fare pensare alla dialettica sull’esistenza di Dio e all’annoso problema del male nel mondo, così lancinante nel contrapporsi del colloquio tra Ivan e Alioscia nei Fratelli Karamazov. Problema questo di ardua soluzione per tutti, ma soprattutto per chi, come l’autore, incolpevole, da un giorno all’altro vede la sua vita a catafascio per una malattia irrisolvibile.
Le poesie della seconda e terza sezione ondeggiano anch’esse tra atteggiamenti contrastanti: la voglia di reagire in positivo, il sentirsi nonostante tutto proteso alla sopravvivenza, nella ricerca dell’origine del bene e l’opposto sentimento di violenza, di disperazione nei confronti di se stesso e di chi crede superbamente di curare annullando la personalità del malato, rendendolo cosa, numero. Tanti e di diverso tipo sono i gioghi che legano alla malattia e cui accenna il poeta.
Le quattro poesie delle ultime due sezioni trovano infine una forma di rasserenamento: nella natura, prima di tutto, nonostante gli scempi umani in campo ecologico, che ci avviano in una strada senza ritorno, ma soprattutto in sé. Segnalo le ultime due liriche della raccolta: La risacca e Consolazione. In questi testi, particolarmente intensi e riusciti, l’autore, quasi ormai fuori dalla mischia, vede la sua vita e la sua scrittura come da altro universo, lontano da astii e acrimonie. Ha colto il senso del suo esistere in patimento e ne intravvede la limpida forza intrinseca. Solo allora arriva la parola definitiva e commovente:
Questo è tutto
Quel poco di me che ho vissuto
tra uno stato di quiete
e un affanno di moto.