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Assassine Seriali
di Sonia Caporossi


Introduzione di Maria Laura Valente a "Assassine seriali" di Sonia Caporossi

 

Collezione di quaderni di poesia “Le gemme” n. 35 anno 2023 (Ed. Progetto Cultura)  

 

ISBN 978 88 3356 


«In principio c’è la relazione». L’assunto di Martin Buber, imperniato sul riconoscimento dell’innata tensione umana a forme d’interrelazione (das Zwischen) che gravitano nell’orbita dell’identificazione dell’io con l’altro, rappresenta una prima chiave di accesso all’interpretazione delle Assassine seriali di Sonia Caporossi, conturbante e micidiale plaquette, nelle cui pagine le più efferate serial killer della Storia disvelano tanto i propri crimini quanto il proprio animus necandi, attraverso puntuali testimonianze liriche in prima persona, le quali, corroborate dalle introduzioni biografiche curate dall’autrice, restituiscono un prismatico ritratto interiore di queste femmes formidables dell’omicidio plurimo. Tuttavia, dalla lettura dei versi, traspare con immediatezza quanto la prolusiva opera di studio dell’endocosmo-altro compiuta da Caporossi abbia valicato il limes di una generica risonanza empatica, addentrandosi nel campo dell’esplorazione estetica intersoggettiva, al fine di raggiungere una forma di Einfühlung («immedesimazione»), ontologicamente affine all’accezione primigenia di principio del giudizio e del godimento estetico in ambito artistico conferitale da Theodor Lipps in Ästhetik (1903); ciò dona, con evidenza, un prezioso strato aggiuntivo di significazione ermeneutica e valenza artistica al corpus delle Assassine seriali. Eppure, la piena comprensione di quest’opera risulterebbe ancora imperfetta se non ci si soffermasse sull’analisi di un ulteriore, essenziale tassello, ovvero l’inesausto impegno che Caporossi, fine musicista e musicologa, ha inteso profondere nella strutturazione prosodica e metrica dei componimenti, ciascuno dei quali si presenta caratterizzato da un verso ben definito. Lungi da un’astratta adesione a forme di neometrica sommaria, la rigorosa selezione di versi classicamente chiusi nella poiesi caporossiana si configura piuttosto come risultanza necessaria della Einfühlung di cui sopra. Dai settenari doppi di Ezsébet Bathory ai senari di Leonarda Cianciulli, attraversando gli endecasillabi di Vera Renczi e i settenari singoli di Belle Gunness, fino alla cruda e struggente polimetria di Aileen Wuornos, ciascun verso si offre, nella propria unicità armonica e perfezione numerica, quale ulteriore elemento di fruizione estetica e, nel contempo, come addizionale chiave di decrittazione di moventi, ambizioni, dolori e amori delle assassine. Last but not least, non passa inosservata la presenza di una peculiarità caporossiana: l’umorismo macabro, in bilico tra humour noir bretoniano e Galgenhumor («umorismo da patibolo»), che sortisce il duplice effetto di arginare il patetismo e approfondire la psicologia delle omicide. Indimenticabile, in tal senso, l’esortazione finale di Giulia Tofana, che può, a giusta ragione, assurgere a vessillo dell’opera tutta: «tu sappi che la morte la stai vivendo già/allora, quale torto nel darla a chi la dà?».

Maria Laura Valente


da Assassine seriali


 Giulia Tofana


Giulia Tofana (Palermo, ... – Roma, 1659) fu l’ingegnosa fattucchiera palermitana che, secondo alcuni, ideò un potente veleno chiamato acqua tofana. Secondo altri, era figlia o nipote di Thofania D’Adamo, vera inventrice della pozione con cui quest’ultima avrebbe, a sua volta, avvelenato il marito. Inodore, incolore e insapore, l’acqua tofana aveva la peculiarità di procurare la morte senza destare sospetti. Tra il 1633 e il 1651, Giulia la vendette a circa seicento donne che volevano sbarazzarsi dei propri mariti perché intrappolate in matrimoni non graditi. Nessuno se ne accorse: in quel periodo, imperversava la peste e, quindi, era facile attribuire all’epidemia tali morti improvvise, che apparivano, quindi, del tutto naturali. Un giorno, vendette un flacone alla Contessa di Ceri che somministrò al marito l’intero contenuto, destando così i sospetti del suocero, il quale fece avviare le indagini. Quando venne scoperta, la fattucchiera sostenne di avere agito per simpatia e compassione nei confronti di quelle povere donne. Fu in seguito imprigionata, torturata e poi, secondo alcuni, giustiziata a Campo de’ Fiori, il 5 luglio 1659, insieme a Girolama (che era sua sorella, o forse sua figlia) e a tre altre donne, di cui si era accertato l’uso dell’acqua tofana; secondo altri, invece, Giulia l’avrebbe fatta franca. Successivamente, l’Inquisizione processò quarantuno donne per il medesimo motivo, condannandole a morte tramite strangolamento oppure murandole vive. La notizia dell’acqua tofana echeggiò anche in Francia, a causa dell’affaire della marchesa di Brinvilliers, di cui si dirà in seguito. Essendo un composto acquoso di anidride arseniosa, piombo e antimonio in polvere disciolto in estratto di bacche di belladonna, si trattava di un veleno estremamente tossico, che recava una morte lenta per avvelenamento progressivo nel giro di un paio di settimane. Poteva essere facilmente scambiato per un cosmetico.


 

un matrimonio infame? c’è ancora una speranza!

rivolgiti alla giulia: in piena sorellanza

ti aiuterò a placare la rabbia del marito

che ti bastona ognora se non lo fai servito

se non fai l’ubbidiente, se non rispondi a tono

rivolgiti alla giulia, non invocar perdono!

preparerò un’ampolla con l’acqua mia tofana

pozione avvelenata che sembra una gazzosa

da far somministrare al mostro che ti opprime

così, immantinente, la smetti di soffrire

lo faccio per pietà, son mossa a simpatia

nessuno ha più diritto di te, mia cara donna

di eliminare il torto di un turpe matrimonio

perché oggigiorno, è noto, le unioni vanno a dote

contrattualmente imposte da regole di corte

dalle manie paterne, da madri snaturate

da patti scellerati di araldica etichetta

per questo, in conclusione, se tanto mi dà tanto

non è poi gran delitto sottrarsi dall’impaccio

un liquido inodore non lascia alcuna traccia

potrai tornare presto in piena libertà

sorridere alla gioia, brillare in società

farti l’amante, sempre che tu non lo abbia già

insomma, donna! a me! viva l’acqua tofana!

ci penserà la giulia a farti cortigiana

ma serve una premessa che elimini l’indugio:

se non ti regge il cuore e ti domina il timore

se non ritieni saggi i motivi del delitto

tu sappi che la morte la stai vivendo già

allora, quale torto nel darla a chi la dà?



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Sonia Caporossi (Tivoli, 1973) è musicista, poetessa, prosatrice, critica letteraria e saggista. Ha pubblicato numerosi libri. Tra gli ultimi ricordiamo il saggio critico Le nostre (de)posizioni. Pesi e contrappesi nella poesia contemporanea emiliano-romagnola, con E. Campi, Bonanno, Acireale 2020; la curatela su G. Leopardi, L’infinita solitudine. Antologia ragionata delle poesie, Marco Saya 2020; la raccolta di monologhi filosofici Opus Metamorphicum, A&B Editrice 2021; la trilogia poetica Taccuino dell’urlo, Marco Saya 2020, finalista al Premio Montano 2020; Taccuino della madre, Progetto Cultura 2021; Taccuino della cura, Terra d’Ulivi 2021. Dirige per Marco Saya Edizioni la collana di classici italiani e stranieri La Costante Di Fidia. Collabora con Poesia Del Nostro Tempo, Versante Ripido, Bibbia d’Asfalto e col festival Bologna In Lettere. Ha fondato il blog multidisciplinare Critica Impura. Attualmente dirige l’antologia permanente online Poesia Ultracontemporanea. Il suo blog personale è disartrofonie. Vive e lavora a Cesena.



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