Sovraliminale
di Francesca Del Moro
Introduzione di Anna Maria Curci a Sovraliminale di Francesca Del Moro
Collezione di quaderni di poesia “Le gemme” n. 33 anno 2023 (Ed. Progetto Cultura)
ISBN 978 88 3356
Nel 1956 Günther Anders, nelle pagine di Die Antiquiertheit des Menschen[1], scrisse che la bomba atomica sganciata sulle città di Hiroshima e Nagasaki si era rivelata un evento spartiacque, di una grandezza inimmaginabile, tale da superare ogni capacità di rappresentazione. Da allora l’umanità è entrata in una dimensione che Anders definisce überschwellig, ‘sovraliminale’, che porta con sé l’inabilità a percepire e a ricordare.
Sovraliminale di Francesca Del Moro si apre proprio con una citazione di Günther Anders. Dinanzi all’inaudito il genere umano distoglie lo sguardo, ottunde i sensi. «Günther Anders ha detto/ che quando i morti sono troppi/ la coscienza è incapace di rimorderti», si legge nel testo 13 a p. 16, là dove «la coscienza a posto» si sbarazza dei rimorsi così come dei rifiuti, con un gesto ormai automatico di ottusa noncuranza.
Come in tutta la scrittura poetica di Francesca Del Moro, e in particolare nella raccolta Gli obbedienti (Cicorivolta Edizioni 2016), emergono, caratteristiche e significative, la pronuncia chiara, il dispiegarsi e il rivelarsi nei trenta testi della raccolta, verso per verso, delle situazioni in cui si manifesta l’inaudito, nella contemporaneità, nel passato recente, nelle rielaborazioni degli artisti.
Il segno dell’inaudito è nelle visioni di sconcertante veridicità, che affondano le radici in un maligno atto di creazione all’origine del mondo (testi, 1,3,5,12), nelle sequenze in cui il perturbante precede e annuncia prima l’orrore, poi lo scenario post-apocalittico, per cedere il posto infine al ripristino della ‘normalità’ insana, la falda avvelenata e comoda nella quale siamo immersi, per lo più impercettibilmente e progressivamente imbevuti. Nei sei versi del testo 2 a p. 7, ispirato al film madre! di Darren Arofnosky, Del Moro usa tre verbi alla prima persona plurale – «ripuliamo», «appendiamo», «cantiamo» – e non lascia dubbi sulla complicità collettiva nei misfatti perpetrati quotidianamente tra ottusità e ignavia. Le immagini del «bambino smembrato» si fanno articolazione esatta, con la solennità, ma anche con la funzione narrativa di un coro tragico, di un atto di accusa dal quale nessuno può dirsi escluso.
Della dolorosa ‘epifania dell’orrore’ vengono individuati nella storia alcuni episodi: tra gli altri, l’eccidio del 28 luglio 1943 alle Officine Reggiane (testo 8 p. 11) e il ritrovamento dei corpi di Peppino Impastato e Aldo Moro il 9 maggio 1978 (testo 9 p. 11).
Domenica, l’unica donna tra le nove vittime dell’eccidio, dona il titolo al testo di p.11. Il dettato dei versi è rigoroso, severo, eppure vibra dell’incontro sonoro tra memoria commossa e viva indignazione, mentre è sostenuto dall’arco disegnato dalla vicenda sottratta all’oblio dal testo poetico: dalla giovane operaia che pedala, consapevole della vita «che le fioriva/ sotto il vestito a fiori» e che poi viene falciata da una raffica sparata ad altezza uomo, fino al licenziamento dei nove operai uccisi, annotato come «quella che oggi chiameremmo/ una giusta causa».
Il 9 maggio 1978 all’orrore del ritrovamento dei due corpi si aggiunge quello pianificato negli anni successivi: lo smantellamento della consapevolezza storica per giungere alla distruzione del pensiero critico, lo strazio arrecato al coraggio civile per costruire un consenso basato sulla dipendenza dal consumo, il dilagare del cieco soddisfacimento di bisogni indotti, fino a travolgere l’idea stessa del bene comune, fino a santificare (Addio all’addì, p. 23) chi ci ha tenuti a testa china, «genuflessi».
Anna Maria Curci
[1] Edizione italiana: Günther Anders, L’uomo è antiquato. Traduzione di Laura Dallapiccola, Bollati Boringhieri 2007
Leggendo Valpreda
Sono sempre gli stessi
a volere le piramidi,
gli altiforni e gli obelischi.
Gli stessi a segnare confini.
Ne impareremo i nomi
sui libri di scuola,
li manderemo a memoria.
Lo sapevano già gli antichi
nel preparare i corredi funebri:
la morte non è uguale per tutti.
C’è anche il suo sudore
in mezzo a quelle pietre
ma lui non gode la vista
dell’opera magnifica,
ha gli occhi cotti dal sole.
Nessuno sa il suo nome.
Domenica
Lei pedalava soddisfatta
della vita nuova che le fioriva
sotto il vestito a fiori.
Parcheggiò ancora il cuore
fuori dai cancelli della fabbrica,
lo legò insieme alla bicicletta
ed ebbe libere le mani
per costruire pezzo su pezzo
la morte. Era il suo lavoro.
Anche i bersaglieri e le guardie giurate
fecero il loro lavoro quel giorno,
spararono a altezza uomo.
Raccontano che la pioggia scese subito
a cancellare il sangue
come se la terra se ne vergognasse.
Domenica e i suoi otto colleghi
furono licenziati qualche giorno dopo.
Il decesso era indicato sulla carta
come quella che oggi chiameremmo
una giusta causa.
(Eccidio delle Reggiane, 28 luglio 1943)
***
Il dispositivo è dentro di te e ti sta sognando.
Le pupille saettano comandi a ripetizione
e ti illudi di muovere l’escrescenza vermiforme
del tronco la vedi carezzare il caro volto
echeggiano applausi nel cranio sei bravo
lucciolette si accendono e spengono tutto intorno
sei bravo i sacchi lacrimali ti si commuovono
in scaglie di pianto ti fioriscono le guance irruvidite
color del metallo provi ancora l’amore è per quello
che vivi per quello che ti trema il corpo affusolato
h 24 confitto h 24 alimentato h 24 riscaldante
senza bisogno di alcuna fatica senza sofferenza
alcuna il corpo finalmente comodo comodo
il dispositivo in te perpetuamente fibrillante.
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Francesca Del Moro è nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. La- vora come editor e traduttrice e ha pubblicato undici libri di poesia e una biografia musicale. Ha tradotto svariati testi di saggistica e narrativa e, in poesia, Les Fleurs du Mal di Charles Baudelaire e Derniers Vers di Jules Laforgue. Fa parte del comitato organizzativo del festival Bologna in Lettere.