Quattro poesie da "Taccuino dell'Urlo" di Sonia Caporossi (Marco Saya Edizioni)
α.
«ho visto l’abisso in un altro
la zona in cui non vuoi stare
si infrange sul muro bagnato
del mare
per tutte le tue sicurezze
insicure
dal limite scabro del luogo
che per coercizione ti ostini a abitare
ho visto il riflesso di un altro
nel sole
nell’ombra di un fiore reciso
che pare
dismesso dall’onda del tempo
che inutile scorre invissuto
e attrae
lo spirito nell’indolenza
pigrizia del dire e del fare
ho visto l’influsso di un altro
sul cuore
che imbelle s’offende al contatto
del dare
respinto da echi ormai spenti
che vacui rinviano parole
d’amore
inascoltate al mittente
per quanto il ritorno alla gioia
si mostri nell’eventuale
ho visto l’ossesso nell’altro
nel dimenticare
quand’anche, sebbene, ancorché
ricordi di lei solo il male
nell’imprecisione coatta
dell’analizzare
ho visto l’abisso di un altro
quel luogo in cui vuoi ancora stare
perché prima o poi, quel poco o quel tanto
almeno, circuìto dal bene
ripenserai il fallimento
e tutte le anemiche colpe
che puoi enumerare
son sempre dell’ego di un altro
nell’ipocrisia
di questo industriarsi a non fare.»
***
VI.
non era tempo.
        non era modo.
non era luogo.
        non era stato
sociale o materiale
        per il contatto.
non era sogno
        che si lasciasse sognare
senza il risveglio.
        non era cibo
che si lasciasse mangiare
        senza il brioschi.
non eran finti
        gli istanti da concepire
«finché poi duri».
        erano puri
gli abbracci delle lenzuola
        quando era sola.
ma era schiavo
        il corpo di quest’urgenza
nella latenza
        di un ritardo in microbyte
d’asincronia.
        «non era mia
ma solo e soltanto sua
        l’appartenenza.»
gomitoli d’incoscienza
        ingarbugliati
come le stringhe dello spazio-tempo
        che perde il senso
per poi ritrovarlo più in lÃ
        nel ritmo postorgasmico del cuore
disperso dove
        del senso ritrovava infine il nesso.
«non c’è dolore
                  se ci riconosciamo nello stesso
  se adesso è tempo, e modo, e luogo
 nell’incostanza stabile del tatto
di disturbare eliot
                                  e l’universo.»
***
X.
«questa cittÃ
ormai estranea a sé stessa
ormai vuota d’attrattiva ai miei occhi
che senza te sono freddi
al richiamo delle cose
                      in cui credevamo
questa città di cui domani
dovrei indagare da solo angoli
           di prospettive e vedute
come fossero panorami del mio inconscio
              quello stesso vilipeso
     dall’attacco rabbioso come un cancro
che divora le tue membra, mentre le mie
                  sono già ombra, alito di fiato
questa città – paese, questo posto insicuro
                     questa patria che non vuoi
                                    che non vogliamo
questi vicoli instradati verso il niente
            questo senso che percorre muto
l’andare e venire della mia mediocritÃ
della tua pretesa di essere in due
                          moltiplicato due più uno
   e che ti porti appresso tutto il passato
      come fossero valigie da fare e disfare
                                          e poi più nulla
questa città protesa verso un futuro
che non ci riguarda se lo pensiamo troppo
questa città che aspetta un nostro gesto
                   per aiutarci a vivere
               come forse già vivevamo
questa città , tre mazzi di chiavi
e un ragazzo in giacca e cravatta
              «ecco l’appartamento»
la casa
                                 la patria
 le giornate radiose di marzo
                   la storia nostra infinita
questa città che è il nostro cuore
la nostra scommessa
                     tradita.»
***
XVII.
«abbracciarci
            come scatole d’assenza
riconoscerci a distanza
come il fiuto di due cani atemporali
         nella chiusa delle mani
strette tra muretti a secco
è l’ur-madre che ci osserva
         attraverso le vetrate di gesù?
              la traslucida presenza
di due occhi mai smarriti
        come oggetti ritrovati
                  senza essersi mai persi?
come raggi diagonali
                che si scaldano nel sole?
abitiamo fredde isole redente
         nella quiete
siamo odori che disperdono
         il sapore
delle bocche dello stomaco
due vulcani di lavanda
         vegetale
che si spremono nel succo
         della neve
torno a te nel me che cerchi
        cercami nel tuo rifugio
nell’esatta abnegazione
                 del triangolo del tempo
ti dimentico nel vuoto
                                 intemperante
della cava ormai esaurita
                         di pienezza.
ti ricordo nella forza
        obnubilante
                            dello scavo