Un cielo per le cose di Daniel Calabrese
Daniel Calabrese
Un cielo per le cose - Ed. La vita felice 2022
a cura di Cinzia Marulli e Mario Meléndez
con il patrocinio della Fondazione Vicente Huidobro
traduzione di Emilio Coco presentazione di Jorge Boccanera
ISBN/EAN 978
Nota dell’editore: Un cielo per le cose è una selezione poetica dei libri Ruta Dos, Oxidario, Escritura en un ladrillo, Futura Ceniza, Compás de espera, El buscador de agua, Ave nocturna e Otro viaje al centro de la tierra, questi ultimi tre inediti. La sua organizzazione non cronologica fa sì che le poesie incluse si risignifichino per dare luogo a questo nuevo libro.
Poesia dello stupore
di
Jorge Boccanera
Con una perplessità contenuta e alcune schegge d’inquietudine, Calabrese allestisce una mise-en-scène poetica inquietante, su un avvenimento che si dibatte nel nonsenso. Di modo che il perturbante si affaccia in maniera naturale, messo negli interstizi del quotidiano, in una specie di spiazzo sul bordo di una strada vista a volte come speranza e sempre come l’alveo di un fiume torrenziale che trascina sogni, una madre con i suoi occhi già sepolti, una bottiglia con un messaggio vuoto, biciclette, cavalli o il freddo di alcune isole nel sud.
Ed è precisamente il fatto di naturalizzare gli elementi dissonanti mediante una trama dialogata, con un’ampiezza di immagini visuali, a fornire alla poesia di Calabrese i segni che identificano le sue ricerche, quelli che individuano il suo sguardo e la sua forma di argomentare; una metafisica attivata da ciò che è dilemmatico, dalla lotta dei contrari espressa dall’ossimoro con cui intitola uno dei suoi primi libri, Futura cenere, e che si prolunga in versi come questi: «la mia malattia è l’illusione», o anche: «vola come volerebbe un albero/ sradicato dalle tempeste/ che lavano e dilavano l’aria».
Al tessuto di una riflessione che oscilla tra l’indagine poetica e il pensiero filosofico, si impone la ricerca di sé stesso con interrogativi che scavano nell’essere come creatura elementare, primigenia e moderna allo stesso tempo, che si dibatte in un buco della notte spazzata da un «vento metallico», e insegue il suo destino nella cartografia della luce, dell’acqua e delle pietre come simboli ricorrenti di quest’opera.
Poesie significative come «Metodo per calcolare il tempo», «I demoliti», «Il lingotto di ferro», «Gli odori del paese» camminano su tracce con forma di segni interrogativi. Quella grafia stampata su una tela di nebbia, indaga: Che cosa cercano questi abitanti su un ciglio della strada, che lasciano cadere una pietra nel vuoto dell’essere? Che cosa inseguono coloro che vivono al margine opposto e tirano fuori una pietra dal vuoto dell’essere? Da dove passa la distruzione in questo momento? Perché un lingotto di ferro aumenta il suo peso ogni giorno? Di che cosa odora Dio?
Di questo stupore è fatta la poesia di Calabrese e si spiega così la sua originalità che poggia su una robusta base metafisica, una sequenza di concetti e una scenografia onirica per configurare quest’espressione che scivola senza sforzo verso altri linguaggi, visto l’utilizzo di ampie fasce visuali con cui Calabrese compone un’autentica road movie, mentre munisce lo scenario con attrezzatura austera ‒ torno alla sua simbologia di polvere, luci, acqua ‒ per accompagnare il nastro della strada che sempre ci conduce verso una destinazione inattesa.
Nei suoi testi-sceneggiature (il grande Blaise Cendrars, salito sul dorso della Transiberiana, coniò il lemma «poesie elastiche») ci fa andare zigzagando per una strada che a tratti cambia apparenza ed è un nastro liquido o un letto asciutto e muto, un percorso furioso, un ponte invecchiato da bambino, un lampo, uno scartamento ferroviario o quell’asfalto fangoso che rallenta il passo, che traina parti di un cosmo roso, fatiscente. La strada, ancora una volta, come elemento che si risignifica di poesia in poesia e ci restituisce uno specchio con le nostre stesse immagini trasformate in rottami. E sulla stessa strada piana, più e più volte Sisifo che spinge l’ombra di una pietra, come se salisse verso la cuspide della sragionevolezza per esistere.
Il tempo, visto come qualcosa di tarlato, è un altro dei perni di Un cielo per le cose e acquista peso specificamente in alcuni versi che ci portano per mano verso una realtà sommersa, regno della muffa, dove l’acqua s’infiltra persino nei sogni e un cimitero di macchine morte abita quel trascorrere che cade come un acido: lo stillicidio minuzioso dell’inesorabile.
Un cielo per le cose rivela, in termini di rappresentazione, una pluralità di significati più che una corrispondenza rigida. Così, il fiume, lungi dall’essere un’acqua lustrale e purificatrice, forma nel suo alveo diverse figure di fango. Calabrese espone in una poetica dell’alternanza quell’altro cammino erratile che è vortice, torrente, vertigine, in un tempo e in uno spazio incerti. Il viaggio non è mai una linea retta. Una somma di biforcazioni che ci denudano e ci trasferiscono, più che nelle enormi piramidi dell’assoluto ‒ l’infinito, l’eternità, la simbologia del cosmico, il peso dei secoli, ecc. ‒ in una “terra incolta”, divisa da una pista‒fenditura che conduce verso direzioni rischiose: a volte verso il bosco chiassoso, a volte verso il cimitero.
Anche se la sua opera, come ha detto lo stesso autore, si abbevera all’oralità ristretta della poesia nordamericana, al cinema di fantascienza, alla metafisica di Héctor Viel Temperley, all’enumerazione caotica di Whitman, e anche alle strisce dei fumetti, alle sequenze visuali proprie di Huidobro, alle parole del tango e persino agli insegnamenti de Il libro tibetano dei morti, è ugualmente sostenuta da un’officina propria di idee e immagini. Scrive l’autore: «E ci mettemmo a pensare / a ciò che fummo, a ciò che saremo, / quando i numeri e la luce / si equilibreranno delicatamente.», «Io non sapevo che sorta di amore fosse l’odio», «La ragione è una pietra appesa alle nuvole», «Quelle montagne si muovono, amico, / e la gente ha la sensazione che muoversi/ sia una tradizione dell’acqua». Una silenziosa apocalisse che fluisce lungo un alveo pietroso e una speranza rubata in un ammasso di ferri ritorti sono i nuclei di questo libro notevole.
Se la poesia è un connubio tra l’enigma e la realtà, quella di Daniel Calabrese spicca notevolmente nella mappa poetica degli ultimi decenni, percuotendo lì dove la pietra si scontra due volte con la stessa vita.
Allá en lo alto
Miren hacia arriba.
La razón es una cuerda inútil
que nos ciñe la respiración.
La razón es una piedra colgando de las nubes.
Pasa un cóndor con su vuelo
lento y desgarbado.
Debe ser un viejo.
Le quedarán algunos círculos
antes de morir secretamente.
Arrastra una sombra pesada
por el fondo del valle
cientos de metros más abajo
y todavía hace temblar a muchas criaturas.
Nos observa desde lo alto:
somos un rebaño violento.
Ninguna Tebas que salvar.
No hay ahora en esta tierra una sola
muralla digna para dar la vida.
Y el cóndor, me pregunto
cómo un comedor de carroña
puede llegar tan alto.
Una voz antigua me responde
como si viniera de un canto del Inferno:
tal vez no imaginaste un diablo pensador.
Hace tiempo que no veo sangre,
siglos que no mato una mosca.
Debería volver a la sed,
a los golpes imperfectos del hacha.
Pero no me agrada la especie:
nuestro rebaño ilustrado.
Que vean los oxidados
todas aquellas cosas que hay que ver,
lo que aprendimos en los barcos,
lo que pensamos con el rostro metido
en la niebla de esta sopa.
Aprendí a ensamblar un mortero de combate,
lo recuerdo muy bien: placa base,
bípode y cañón,
en menos de un minuto queda listo
para escupir al cielo.
Aprendí que el enemigo
no debería respirar dos veces.
Nadé al sol, pensé en ella.
Me hundí y me dejé llevar
por las amapolas del agua.
Debería volver a la sed.
Llevo un sonido secreto y no puedo evitar
que retumbe en mi cabeza:
es el perro tomando agua.
Ando al sol, oigo al perro de la casa.
Sueño debajo de la vieja noche
con el ruido del agua lamida por el perro.
El chapoteo se interrumpe con el paso de un tren
y luego continúa:
slap, slap,
el perro, la sed,
un reloj aplaudiendo en el silencio.
Te vi llegar, eras tan turbia.
Te vi llegar.
Ahora pasa la sombra del cóndor,
el peso de la razón que todavía lo mantiene
atado a este mundo.
Silencio, bebedor.
Silencio.
Là in alto
Guardate in alto.
La ragione è una corda inutile
che ci stringe il respiro.
La ragione è una pietra che pende dalle nuvole.
Passa un condor col suo volo
lento e goffo.
Deve essere vecchio.
Gli resterà qualche cerchio
prima di morire segretamente.
Trascina un’ombra pesante
lungo il fondo della valle
centinaia di metri più giù
e fa tremare ancora molte creature.
Ci osserva dall’alto:
siamo un gregge violento.
Nessuna Tebe da salvare.
Non c’è adesso su questa terra una sola
muraglia per cui valga la pena dare la vita.
E il condor, mi chiedo
come un mangiatore di carogne
può arrivare così in alto.
Una voce antica mi risponde
come se venisse da un canto dell’Inferno:
forse non hai immaginato un diavolo pensatore.
È da tempo che non vedo sangue,
da secoli che non uccido una mosca.
Dovrei tornare alla sete,
ai colpi imperfetti dell’ascia.
Ma non mi piace la specie:
il nostro gregge illuminato.
Vedano quelli arrugginiti
tutte le cose che bisogna vedere,
quello che abbiamo imparato sulle navi,
quello che abbiamo pensato con il volto messo
nella nebbia di questa minestra.
Ho imparato ad assemblare un mortaio da combattimento,
lo ricordo molto bene: piastra base,
bipiede e canna,
in meno di un minuto è pronto
per sputare verso il cielo.
Ho imparato che il nemico
non dovrebbe respirare per due volte.
Ho nuotato al sole, ho pensato a lei.
Sono affondato e mi sono lasciato portare
dai papaveri dell’acqua.
Dovrei tornare alla sete.
Porto in me un suono segreto e non posso evitare
che mi rimbombi nella testa:
è il cane che beve l’acqua.
Vado al sole, sento il cane della casa.
Sogno sotto la vecchia notte
col rumore dell’acqua leccata dal cane.
Lo sciacquio s’interrompe col passaggio di un treno
e poi continua:
slap, slap,
il cane, la sete,
un orologio che applaude nel silenzio.
Ti ho vista arrivare, eri così torbida.
Ti ho vista arrivare.
Adesso passa l’ombra del condor,
il peso della ragione che lo mantiene ancora
legato a questo mondo.
Silenzio, bevitore.
Silenzio.
Prodigio
El trabajo de este día consiste
en llevar una piedra de aquí para allá.
Es una roca muy pesada,
más que un buey,
más que una bolsa cargada de lluvia.
Es un agujero prehistórico,
un espejo negro
a punto de tragarse el mundo.
El trabajo de este día consiste
en alzar esa piedra y depositarla
suavemente en el medio del camino
para que se detengan los ciclistas,
se detenga la música de fondo,
se detenga la Ruta Dos
a la hora señalada por las arterias rojas.
Y cuando todo esté detenido,
entorpecido por la piedra,
detenidas las generaciones ilustradas y piadosas,
detenido el amor entre las cosas naturales
y las cosas manifiestas,
el trabajo, entonces,
consistirá en sacarla de ese lugar,
levantar la piedra nuevamente, con los ojos cansados,
y enterrarla por ahí, en la nada,
en ese lago de cerrada indiferencia
donde cruje la cama, alumbra el televisor,
brillan los motores,
cae el vino adentro de la luz,
se pudren la memoria y las conversaciones tristes,
y se hunden, con la piedra,
en la más completa extinción.
Prodigio
Il lavoro di questo giorno consiste
nel portare una pietra da qui a lì.
È una roccia molto pesante
più di un bue,
più di un sacco carico di pioggia.
È un buco preistorico,
uno specchio nero
sul punto di inghiottirsi il mondo.
Il lavoro di questo giorno consiste
nell’alzare quella pietra e depositarla
dolcemente in mezzo alla strada
perché si fermino i ciclisti,
si fermi la musica in sottofondo,
si fermi la Ruta Dos
nell’ora indicata dalle arterie rosse.
E quando tutto sarà fermo,
ostacolato dalla pietra,
ferme le generazioni illuminate e pietose,
fermo l’amore tra le cose naturali
e le cose manifeste,
il lavoro, allora,
consisterà nel portarla via da quel posto,
sollevare la pietra nuovamente, con gli occhi stanchi,
e seppellirla lì, nel nulla,
in quel lago di chiusa indifferenza
dove scricchiola il letto, si accende il televisore,
brillano i motori,
cade il vino dentro la luce,
imputridiscono la memoria e le conversazioni tristi,
e sprofondano, con la pietra,
nella più completa estinzione.