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  • Perché bisogna leggere Gabriele Galloni di Luca Perrone - saggio su "In che luce cadranno"

    RPLibri 2018 Immagino Gabriele Galloni rapito dalla contemplazione del teschio esposto sulla sua scrivania sgombra e spartana. Lo vedo assorto in profonde meditazioni come un illuminato del diciottesimo secolo. Poi lo so fuori dal tempo e dallo spazio, a dissezionare la banalità del reale fino a distillarne lo zero (pag. 22). La critica lo inserisce con ragione nella tradizione lirica. Ciò che pensano e non osano dire è che il Galloni di “In che luce cadranno” è epifania poetica uguale a quella del William Blake di “The marriage of Heaven and Hell” e dell’Arthur Rimbaud di “Une saison en enfer”. Si tratta quindi di poesia non inscrivibile in alcuna tradizione, potremmo chiamarla innovazione ma ritengo sarebbe scorretto. La poesia non è ammalata di quantità, non progredisce, non raggiunge, non supera, non persegue. La poesia è rito di pochi istanti che disvela attraverso le allusioni, squarcia l’afa del deserto e deifica l’allucinazione degli assetati, per mezzo dell’antropomorfizzazione. Poesia potrebbe essere espressione estetica di gratitudine per l’autocoscienza, sicuramente celebra le sensazioni. Nel tempo grigio del regno della ragione difende i sensi dall’atrofia. Gabriele Galloni scrive versi psicotropi. Ho letto la sua seconda silloge senza perdere il sapore intenso di alcun fonema, rileggevo un distico perfetto e il suo sapore s’intensificava. Lasciavo che dai lombi salisse al cervello il flash dell’intuizione, quando coglievo l’estrema complessità dei giochi semantici mascherati da guizzi spontanei d’immediata intellegibilità. La semplicità è il comune denominatore d’ogni forma d’arte e Galloni ne è maestro. Egli è riuscito a realizzare un capolavoro privo di sbavature senza necessitare della quiete o della forma di riflessione che comporta l’età matura. Si deve escludere che fra i suoi versi ne vivano molti che non siano stati laboriosamente cesellati dopo la prima stesura, sono portato a pensare che esistano lemmi scartati sufficienti ad approntare un’altra silloge, ogni poesia è una goccia d’assenzio. Federico Dragogna, discreto paroliere della rock band I Ministri, appartenente alla generazione precedente a quella di Gabriele, nel secondo distico di “Segui la pista anarchica” scrive “dio ha quattordici anni e non è/neanche il suo vero nome”. Questi versi sono per me oggetto di riconoscimento platonico e spero che Dragogna abbia avuto occasione di scoprire che l’Imperatore ha ventitré anni e si chiama Gabriele Galloni. Nell’universo che abito insieme a Dragogna e Galloni non c’è bisogno di figure di riferimento, di contratto sociale o stupide leggi. Nel nostro universo gli artisti hanno ereditato la terra e fra i vivi muoiono e vivono i morti. Quei morti che hanno eletto a cantore e disvelatore il poeta più talentuoso e geniale. Se un filosofo poeta persegue immagini ricavate da prospettiva conquistata sub specie aeternitatis, Gabriele Galloni ha poetato l’infinità, l’universalità, l’uguaglianza, senza la confusione generata dalla distrazione causata dallo spreco d’energie profuse nel comprendere e criticare ciò che è quotidiano e banale, per quanto ingiusto ed eternamente rorido. Le trentotto poesie che costituiscono la silloge sono altrettante attribuzioni di vita ai morti, che muoiono ancora e festeggiano riti funebri. Il sentimento predominante è il sublime. Dato l’argomento ci si aspetterebbe più gotico, macabro, lugubre, ci si aspetterebbero la mestizia, la malinconia e il grottesco, quest’ultimo è presente in pochissimi camei delicati e diafani, poiché non esiste il genio senza tentazione d’ironia o sarcasmo. Penso ai morti che è normale vederli a volto coperto passare/ dal corridoio al bagno alla cucina, ultimo distico della poesia di pag. 11 che amerei stuprare con un’analisi dettagliata e approfondita. Galloni non ha ceduto e nemmeno è stato sfiorato per un istante dall’idea di affrontare i morti col taglio disperato e scuro dell’immenso Novalis, per esempio. Non appartiene alla banalità. Il poeta non ha bisogno d’uno Psicopompo che lo conduca alla scoperta di (qualsiasi fiume) ove si trovino I più frivoli tra i morti (pag. 39), il arrive à l'inconnu ma senza perdre l'intelligence de ses visions. A Le suprême Savant in questione per il momento sono state risparmiate toutes les formes […]de folie, così ricorrenti nell’esplorazione della tradizione estatica; gli auguriamo che la vita conservi la sua coscienza meravigliosa. La prova tangibile, il risultato della ricerca di Gabriele Galloni, risiede nella poesia seguente, viene estratta da una scatola (elezione lessicale perfetta, a prova del Faber di Amico fragile): Dentro la scatola c’è un flauto d’osso. Tra pochi giorni ritornerà cenere E i morti se lo soffieranno addosso Correndo intorno a un lumicino blu. Poi la tenerezza commuovente dei versi che seguono, in cui tutta la produzione d’un Giovanni Pascoli a caso non è che il sassolino d’arredo d’un acquario delle dimensioni della somma degli oceani: Se la madre dei morti è sempre polvere, i morti cercano la loro madre ogni sabato sera sulle spiagge libere; sotto le sedie o nei gelati caduti di mano ai ragazzini in chissà quante estati, in chissà quanti alberghi, marciapiedi, lungomari. La licenza ermeneutica mi tenterebbe a raccontare cosa vedo quando sento “In che luce cadranno”. Stiamo parlando di poesia però, di preghiera, il verso d’un poeta ispirato l’unico dogma che riconosco e rispetto. Stiamo parlando di Poesia. Luca Perrone Gabriele Galloni è nato a Roma nel 1995. Esordisce nel 2017 con la silloge di versi Slittamenti (Augh! edizioni). Segue, a inizio 2018, In che luce cadranno (RPlibri) Autore, per il sito Pangea, della rubrica Cronache dalla fine. Dodici conversazioni con altrettanti malati terminali.

  • Stefania di Lino su "Il lato basso del quadrato" di Giuseppe Vetromile

    Ed. La vita felice 2017 ‘Mai finiremo l’esplorazione/ e la fine del nostro esplorare / Sarà giungere dove iniziammo/ E sapere per la prima volta il luogo.’ (T.S. Eliot, parte finale di Little Gidding) ‘: si va per tentativi aritmetici soppesati la sera prima di addormentarsi’ (G. Vetromile, Il lato basso del quadrato, pag.79) Nella narrazione psicoanalitica, si dice che l’oggetto da perseguire non sia tanto quello che rientra nel linguaggio, quanto ciò che da questo ne rimane escluso. Trovo tale definizione adattabile anche al linguaggio poetico che, perseguendo l’innominabile, si inerpica lungo i condotti ventrali di una lingua imperfetta, quindi mai esaustiva nell’esprimere il ‘tutto’, almeno nella direzione che il poeta ricerca. Percorrendo questi sentieri, infatti, ci si imbatte in continue fratture, in vicoli ciechi; cesure tra il significato e il significante che il filosofo Giorgio Agàmben definisce ‘snodi’ che conducono da una lingua a un’altra. Tanto è vero che si diventa poeti per dire quello che in altro modo sarebbe difficile esprimere - forse impossibile - grazie anche alla traduzione-trasposizione – poesia è comunque traduzione – e alla possibilità di ribaltamento di registro e di piani di significazione; grazie e in virtù di uno slittamento di livello - dovuti anche all’uso di figure retoriche- che solo l’arte e la poesia, per ambizione libertaria e per un mandato preciso di svincolamento dall’ordinario, possono concedere. Ma tale libertà espressiva, per quanto pirotecnica e immaginifica, nella traduzione del suo compiersi, - nel suo farsi ‘carne e sangue’, come dice il Vasari a proposito della pittura eretica di Piero della Francesca – tale libertà espressiva, dicevo, nel poeta non potrà mai sottrarsi alla finitezza della materia e all’imperfezione della parola: limiti dettati da un imprescindibile principio di realtà con cui l’artista deve necessariamente misurarsi per poter realizzare la sua opera. Si cede quindi qualcosa del progetto originario (o del sogno), e si acquista qualche altra in termini di creazione sul piano della realtà. E’ esattamente da questo momento che l’opera diventa autonoma per acquisire un’identità tutta sua, a volte sorprendente persino per lo stesso autore. E Giuseppe Vetromile, poeta, si colloca in una posizione di un realismo raro e disarmante, aderente alla terra, avendo ben presente che tali limiti appartengono esattamente a tutti gli esseri viventi, situando in tal modo l’elemento umano non in posizione egemonica o antropocentrica - molto lontana, anzi antitetica è infatti l’idea di dominio su chicchessia- ma pari a un filo d’erba o a un coleottero, se non altro per destino, ma forse anche per scelta, situandosi nella parte bassa (forse la più viscerale?) di un’ipotetica finestra (quadrata). In ogni caso parallelo alla terra. E tali limiti Giuseppe li dichiara con umiltà quasi mistica, direi francescana, con quella sobrietà e quel certo distacco che il caso, nella sua posizione geografica (già il Sud! ma a Sud di cosa?) gli conferisce. Lo fa chiaramente, onestamente, senza infingimenti esornativi, già nel titolo e nell’ introduzione che lui scrive per il suo libro – [...] Partire da costituenti minimi, da geometrie di base, da sottili lati fortemente aderenti alla terra [...] - , ma anche in alcuni versi, in cui viene citata la concretezza della materia: [...] Perduti noi siamo mia cara nelle viscere della materia Cantare al cielo non serve non serve il nostro sbattere d’elitre fasulle [...] La geometria piana dunque, e più genericamente intesa, una visione scientifica della materia che ci rende corpi proiettati nello spazio, (forse ologrammi mescolati alla ‘stessa sostanza dei sogni’), sono il leit motiv, il filo rosso che ci guida tra i versi, ed è ciò che intride e pervade il discorso lirico di Giuseppe Vetromile nel suo poema, alto per forma e per intenti, ma che non rifugge da una certa sfumatura intimista – commoventi i testi dedicati alla madre e al padre - , e un certo tono colloquiale, dovuto all’intercalare ricorrente con cui si rivolge a una ascoltatrice ideale, appellandola affettuosamente con ‘mia cara’; un interporre quasi anaforico che rende il dettato poetico ancor più catturante, originale anche per l’uso dei due punti collocati all’inizio del verso. E l’uso della metafora geometrica, attinente alla formazione culturale del nostro poeta, in effetti, si giustifica ricordando l’etimologia della parola stessa che deriva dal greco antico γή = ‘terra’ e μετρία, metria = ‘misura’, e pur evitando di citare importanti pensatori dell’antichità a tal proposito, comprendiamo appieno l’accezione filosofica del termine e il portato simbolico su cui si fonda la felice l’intuizione lirica e direi tutto l’assioma poetico di Giuseppe Vetromile. Ciò anche a sfatare il persistente pregiudizio di un antagonismo, anzi addirittura di una incompatibilità, tra la visione poetica del mondo, che si vuole per ignoranza e pregiudizio, più romantica ed evanescente, contro un presupposto rigore della geometria e dei numeri più in generale, che in quanto tali, dovrebbero essere più credibili rispetto alla prima. Ma, e chiedo, esattamente in virtù di cosa? Per ciò che mi compete, visto e appurato l’uso manipolativo delle cifre quanto delle parole, agilmente sorvolerei su tale infondato stereotipo, comprendendo in un unico orizzonte l’imprescindibile dialettica tra pittura e filosofia, matematica e poesia, scienza e arte, in passato tutt’altro che disgiunti, senza preclusioni di sorta, poiché è proprio la letteratura stessa a parlarci spesso di scienza, interrogandosi, proprio come il nostro poeta, sulla condizione umana e sul senso della nostra postura nel cosmo. Anzi, in questo caso è il poeta a denunciare la fallacità della scienza, avvisandoci quasi alla maniera di Dostoevskij, che la ragione non è tutto e non soddisfa completamente, non basta, e la geometria con i suoi teoremi, o la matematica con i suoi numeri, non spiegano, perché non sono in grado di spiegare: Da questa casa pitagorica non sfuggirò/ che al declino dei numeri totali/.quando avrò reso le mie cose al mondo/ e sarò sogno di me stesso/in cammino tra le stelle/ (pag.18). E nei versi del nostro poeta, la vita è rappresentata ossimoricamente come un ‘cerchio’ tutt’altro che perfetto, anzi ‘ambiguo’, con tutte le manifestazioni dell’esistere, l’affanno del vivere, le illusioni (pag. 22): Ho con me una tabella Non entra la ragione in questo breve spazio di luce cunicolo tra una preghiera e un altro affanno non entra l’evidenza del teorema euclideo nel cerchio ambiguo della vita : da una morte non si ricava l’equazione del cosmo e il sogno continua all’infinito come sparlando di questa verità di bocca in bocca Ho con me una tabella mia cara per calcolarmi i passi esatti lungo il crinale e lo sbattere giusto delle ali verso il cielo : così almeno l’illusione è perfetta quanto la felicità di un’addizione ma è tutto vano : ho compreso il gioco della materia in questi laterizi abbandonati nessun grido nessuno dolore : il paese finto giace sotto gli occhi stupefatti e continuiamo mia cara a credere che tutto stia solo ora a iniziare Un poeta, quindi, è tale se è portatore di una visione del mondo, di un suo specifico originale punto di vista e su di sé assume, poeticamente parlando, le conseguenze di tale visione. Parlo della responsabilità della parola e della soglia verso cui, il poeta conduce i suoi lettori. Giuseppe Vetromile, come dicevo, si dichiara da subito con la sua ‘poesia onesta’ (pag.9): Geometrie spurie la parte bassa del quadrato è un lato sottilissimo umile inerte e sta fermo dall’eternità della legge a sorreggere le sorti della buona geometria laddove per ‘buona geometria’, si legga una possibile vivibile traduzione di senso dello stare al mondo, ma anche – e siamo al topospoetico – l’andarsene da questo mondo (pag.71): [...] Dove andrò la casa sarà memoria d’aria e d’ombra e sarò scritto col dito di Dio sulla faccia della terra: di me più nulla eppure in ogni dove combacerò perfettamente a tutto l’orizzonte e così via fino al bellissimo testo sul fabbricato Esse che chiude il poema sulla inesauribile circolarità che alterna la vita alla morte, e viceversa, o se si vuole, tra l’entrare e l’uscire dal mondo. In uno splendido dramma dedicato a Galileo, in cui la diatriba, visti i tempi, si gioca tra religione e scienza, ma il paragone calza benissimo anche con la poesia, Bertolt Brecht fa dire al fisico e astronomo del ‘500 : ‘Rimetteremo tutto in dubbio [...] Quello che troviamo oggi, domani lo cancelleremo dalla lavagna e non lo scriveremo più, a meno che posdomani, lo ritroviamo un’altra volta. Se qualche scoperta seconderà le nostre previsioni, la considereremo con particolare diffidenza. [...] E solo quando avremo fallito, quando, battuti senza speranza, saremo ridotti a leccarci le ferite, allora, con la morte nell’anima cominceremo a domandarci se per caso non avevamo ragione.’ Stefania Di Lino

  • A quarant'anni dalla morte di Panagulis di Andrea Mariotti

    Del tutto assente sugli organi di stampa più rilevanti in Italia -per quanto mi risulta- il ricordo della morte di Aléxandros Panagulis (primo maggio del 1976). Politico, rivoluzionario e poeta Panagulis resta storicamente figura di primissimo piano nella lotta contro la dittatura dei colonnelli in Grecia (colpo di Stato del 21 aprile 1967); nonché protagonista del celebre romanzo-verità Un uomo di Oriana Fallaci (prima ed.1979), che in tale libro narrò la storia di colui che per pochi e intensi anni fu suo compagno nella vita. Non sarà inutile qui citare il prologo del libro della scrittrice fiorentina “…La solita tragedia dell’individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti. Eccola, e tu mio unico interlocutore possibile, laggiù sottoterra, mentre l’orologio senza lancette segna il cammino della memoria”. Ma veniamo al titolo del presente scritto, che è quello testuale della silloge di Aléxandros Panagulis uscita in prima edizione italiana nell’aprile del 1974 per la Rizzoli (silloge pressoché introvabile oggi in libreria): un titolo folgorante, che immediatamente qualifica l’autore come scriptor rerum (e non potrebbe essere altrimenti!). Ora è importante ricordare il nome di chi ebbe a scrivere la prefazione della raccolta in oggetto: Pier Paolo Pasolini, il quale incontrò in Italia Panagulis dopo la liberazione dal carcere; avendo del resto già dedicato ad Aléxandros una bellissima poesia intitolata Panagulis, inclusa in Trasumanar e organizzar (1971), ultima silloge del grande scrittore e regista. Occorre sottolineare l’inevitabilità dell’incontro umano-poetico di Pasolini con Aléxandros Panagulis: al netto delle raccolte postume di un indimenticabile Pier Paolo in veste di saggista e critico letterario (riferendoci a Passione e ideologia, 1994 e Descrizioni di descrizioni, 1996 ; non figurando per l’appunto in esse il nome di Panagulis). Tuttavia esiste una poesia di Pasolini del 1966 dal titolo Poeta delle ceneri (pubblicata su Nuovi Argomenti; Roma, luglio-dicembre 1980); poesia dalla quale conviene estrapolare i seguenti versi: “Perciò io vorrei soltanto vivere/ pur essendo poeta/ …Vorrei esprimermi con gli esempi./ GETTARE IL MIO CORPO NELLA LOTTA”. Ecco. L’ultimo verso, appositamente evidenziato, ci spiega bene le ragioni poetico-umane per le quali Pasolini fu profondamente solidale con Panagulis, scrivendo fra l’altro la suindicata prefazione a Vi scrivo da un carcere in Grecia, il libro di cui ci occuperemo adesso da vicino; non senza avere rammentato che tale silloge, in Italia, venne pubblicata dopo quella del 1972 dal titolo Altri seguiranno: poesie e documenti dal carcere di Boyati (Flaccovio editore in Palermo; con nota introduttiva di Ferruccio Parri e dello stesso Pasolini, Premio Viareggio Internazionale). In Vi scrivo da un carcere in Grecia, da ricondurre per Pasolini cronologicamente al “Secondo Boiati” (1970-3) -ossia alla seconda fase della prigionia di Panagulis fino alla sua liberazione- siamo al cospetto di chi, già “trasformato in poeta attraverso la tortura”, ora ha preso coscienza della funzione autonoma della letteratura in base a un “nuovo discorrere…oltre i confini nominali della giaculatoria”. Ciò non significa secondo Pasolini la scomparsa nella nuova poesia di Panagulis di due poli stilistici essenziali, ovvero la “furia anaforica” e la “clausola gnomica”; solo che adesso la prima può sciogliersi distesamente nella seconda “come uno stretto e magro fiumicello in un largo lago”: citando il prefatore al riguardo una delle più belle poesie del volume, A mio fratello, tenente Giorgio Panagulis, con riferimento soprattutto ai versi finali di essa. Sia però concesso a chi scrive proporre al lettore, estrapolata da detta poesia, la seguente strofa, laddove lo scriptor rerum Aléxandros raggiunge un vertice di struggente e asciutta tenerezza: “Eravamo fratelli, fratello/ ma anche amici/ amici e fratelli/ e non insultavamo/ il nostro amore/ adornandolo di parole/ Il grigiore di ogni giorno/ le solite piatte parole/ le parole quotidiane/ gli scarni gesti della vita/ e quelle nostre rabbie/ e il silenzio/ parlavano chiaramente d’amore”. Naturalmente di fronte ai versi di Panagulis non bisogna perdere il filo: nel senso che, sempre per Pasolini, va rammentata la durevole dicotomia in essi attiva e per la quale Panagulis è e resterà inconfondibilmente se stesso, come uomo e poeta: “Libertà da una parte, tirannia dall’altra: che non possono essere superate da sintesi di alcun genere. O coesistono, oppure una uccide l’altra”. Si legga, in merito, una poesia inclusa nella silloge quale La tinta: “Ho dato vita ai muri/ gli ho dato voci/ perché mi facciano un po’ di compagnia/ I secondini cercano e ricercano/ dove trovai la tinta/ I muri della cella/ tengono il segreto/ I mercenari frugano e rifrugano/ e non trovano la tinta/ Non gli è venuto in mente/ di frugarmi le vene” (S.F.M.Isolamento, Giugno 1971). Il nostro grande scrittore e regista riconosce nel rivoluzionario greco l’autore di una parola poetica di natura atroce, dovuta alle “sevizie, gli anni di prigionia dentro un cubo di cemento, i polsi stretti giorno e notte dalle manette…e tuttavia, le guasconate, l’irriducibile calcolo dell’estremismo, l’accettazione provocatoria (e sublime) della morte. Eppure un poeta come Panagulis che davvero ha gettato il suo corpo nella lotta considera “basso” per il nostro prefatore “parlare del corpo…Il suo perpetuo sforzo… è di tradurre in termini compiutamente metaforici… le esperienze vissute col corpo… Di tutto ciò si proietta nella sua poesia scritta, soltanto un’ombra. Ma, come appunto accade nella poesia, quest’ombra si fa a sua volta corpo. Valgano a parer mio in tal senso dalla raccolta in oggetto i versi di Devi vivere: “Se per vivere, Libertà/ chiedi di mangiare la nostra carne/ e per bere/ vuoi da noi sangue e lacrime,/ te li daremo/ Devi vivere”. La Grecia nei decenni successivi alla morte più volte ha reso omaggio a Panagulis: francobollo, scheda telefonica e stazioni del metrò nella capitale. Aléxandros fu in tutta evidenza ucciso nella notte fra il 30 aprile e il primo maggio del 1976 dai sicari del nuovo governo pesantemente colluso con la giunta dei colonnelli (“compromettenti” le indagini da lui condotte in veste di parlamentare ormai isolato). Ebbene Panagulis - ovunque simbolo di lotta per la libertà e la democrazia - quasi si è materializzato ai miei occhi di recente a Roma, in un vagone della metropolitana, osservando da parte mia il triste rituale di massa dei nuovi oranti - i passeggeri - con sguardi inebetiti sugli smartphone (in autistico raccoglimento, insomma): a me declamando, Aléxandros (a voce bassa per non disturbare i presenti), la seguente sua poesia tratta sempre da Vi scrivo da un carcere in Grecia e intitolata Gli ingranaggi: “Che tristezza per quelli che accettarono/ d’essere gli ingranaggi d’una macchina/ credendo voce loro/ i monotoni suoni della macchina/ Che orrore quando vedo/ mani acefale muovere la macchina/ con movimenti ritmici, gli stessi/ cui la voce di altri dà comandi/ Che disgusto inaudito/ osservare occhi e bocca/ di chi per conto d’altri parla e guarda/ Anche loro ingranaggi della macchina…”. Andrea Mariotti, giugno 2016 Il presente articolo è stato pubblicato sull'ultimo numero della rivista "I fiori del male" e viene riproposto in questo blog su autorizzazione dell'autore.

  • Anna Maria Curci su "Distrazioni " di Cristina Polli (Edilet Edilazio Letteraria 2021)

    Posare lo sguardo su ciò che si allontana – per «sorte e oltre» - dal centro trionfante di vezzi e lodi, profusi e consumati in vorace transitorietà gli uni e le altre; lambire, poi attraversare, accarezzare perfino, il margine, la periferia, la diramazione, dall’orlo esposto all’erosione fino al rischio dell’evanescenza; cercare il proprio canto nel confine incerto, nel trascolorare da tono a tono, nel trascorrere quasi impercettibile di stato e di parvenza: da questi moti, da queste scelte scaturiscono le Distrazioni di Cristina Polli. L’esercizio dello sguardo e la modulazione della voce si estendono e si avventurano, per “affinità elettiva” e, torno a sottolineare, per scelta, in virtù di una decisione programmatica, in regioni insieme consuete e inesplorate, quotidiane e remote, con un ardire non proclamato, ma praticato. Se l’io lirico si lascia attraversare dalla «bellezza muta» di ciò che si manifesta alla percezione, esso è ben consapevole, d’altro canto, della «ripetizione» incessante del tormento, dell’essere corrosi, erosi, dilaniati. Osservazione e riflessione sull’esistenza coesistono e. nutrendosi e animandosi con reciprocità che si sviluppa e si rinnova, danno vita a quadri-componimenti, momenti e parti di un mosaico visivo, sonoro, vivido e vibrante di simboli. L’attesa, l’attenzione, la meditazione sono doti che, ricevute all’inizio del viaggio nell’esistenza, vanno coltivate con cura. Si percepisce in ogni testo della raccolta una chiara etica dello stare al mondo, come creatura e come coscienza, dinanzi e dentro alle epifanie, come testimoniano, già dai rispettivi nomi, le cinque sezioni nei quali i testi sono organizzati: Il tempo dell’attesa, Ritratti, Finestre, Conversazioni, Graffi. Passaggi tra paesaggi, orme esposte all’alternarsi delle maree, segni incisi e patiti, che sia carta, corteccia, carne: l’universo poetico di Cristina Polli, le sue sponde, le sue brume, il mare, l’acqua, la pietra, ciò che si era già palesato con un sentire profondo e un dire incisivo sia nella raccolta d’esordio Tutto e ogni singola cosa (EdiLet 2017) sia nel poemetto Quando fioriscono le tamerici(FusibiliaLibri 2020) torna a manifestarsi in Distrazioni, tuttavia con un accento posto programmaticamente, mi sembra di poter osservare, sull’esercizio dello sguardo, di uno sguardo desto, non giudicante, di uno sguardo che può apparire a volte meno attento, distratto, ma proprio perché assorto e sempre intimamente legato alla «rotta inversa» e alle «rotte scomposte» di percezioni, pensieri, peregrinazioni della coscienza. Importante novità questa e, come fa notare Patrizia Sardisco nella bella e illuminante Prefazione, passo ulteriore rispetto all’urgenza, alla «necessità di nomina della vicenda arcaica di un io pietrificato». È una poesia che ha fatto tesoro di quanto la stessa Cristina Polli scriveva in Quando fioriscono le tamerici: «benedice la sottrazione». Nell’universo di Distrazioni propongo un breve itinerario che ha come tappe cinque componimenti, uno per ciascuna delle cinque sezioni. Dalla sezione Il tempo dell’attesa PRELUDIO Ci vorrebbe un ritorno una traccia bianca di passi e la sosta, la sosta di una strada in attesa d’un incrocio di luce. Sul silenzio la morena del tempo il respiro di un precipitare. Preludio si presenta già nel titolo come una poesia che intende accostarsi alla composizione musicale. Come in una composizione musicale, le singole battute vanno a costruire una melodia, nella quale riconosciamo, come accenti nella singola battuta e come motivi ricorrenti, le parole che animano la poesia di Cristina Polli e che ne costituiscono gli elementi fondanti: desiderio del ritorno, attesa, sosta, silenzio, respiro. Dalla sezione Ritratti RIPETIZIONE Si è aperto tra i rami il giorno incerto ho destinato alle carte la mia poca energia il resto l’ho dato in pasto all’avvoltoio che non sa perché mi scarnifica il fegato ma mi guarda e ha negli occhi un’innocenza crudele e mi presta cure per dilaniarmi ancora. Ripetizione si apre con un endecasillabo perfetto e prosegue con versi lunghi, vere e proprie sequenze tra il descrittivo e il narrativo. Anche se il suo nome non viene pronunciato, è Prometeo ad essere accostato, con il suo supplizio eterno, all’io lirico. I verbi “scarnificare” e “dilaniare” sono i segnali di una condanna che accomuna la figura mitologica e l’io che si rivela tra i versi. Prometeo non nominato, eppure qui centrale, malgrado nelle versioni del mito fosse un’aquila e non un avvoltoio a divorargli il fegato, non è certo il ribelle, lo sprezzante enfant prodige dell’inno che Goethe scrisse nel suo periodo Sturm und Drang, ma sembra invece lanciare uno sguardo d’intesa a Prometeo, brevissimo racconto che Franz Kafka scrisse nel 1918. Kafka riferisce di «quattro leggende» relative a Prometeo inchiodato alla «montagna rocciosa», fino a divenire una sola cosa con la pietra. È la chiusa di quel racconto, che riporto qui nella traduzione di Ervino Pocar, a illuminare la sua vicinanza con uno dei temi fondamentali nella poesia di Cristina Polli, vale a dire la pietra, con i suoi compagni inseparabili, presenti, persistenti eppure ineffabili, ovvero il lavorio su di essa e la sua resistenza: «Rimase l’inspiegabile montagna rocciosa. – La leggenda tenta di spiegare l’inspiegabile. Siccome proviene da un fondo di verità, deve terminare nell’inspiegabile». Dalla sezione Finestre CALLIGRAFIA DEL SILENZIO È caduta per me la foglia sull’asfalto. Non so la foglia o l’albero esile da cui si è lasciata prendere scrivendo un volteggio senza vento. Calligrafia del silenzio che di bellezza muta mi attraversi. In Calligrafia del silenzio l’ineffabile si manifesta come una foglia che cade sull’asfalto. Il moto proprio della caduta – si tratta di un «volteggio/ senza vento» si lega, tuttavia, a una inaspettata e prodigiosa finalità: è la precisazione «per me» ad accompagnare il movimento. La rotta tracciata dalla foglia non è una linea retta, ma disegna una danza e scrive, manifestando muta la bellezza, il silenzio. Dalla sezione Conversazioni PASSAGGI Oggi si stende l’inverno tra il cielo e la terra, e io come una bambina distratta attraverso passaggi, margini e brume che smemorano sull’intonaco scrostato. Eravate e non vi conoscevo. Restate come nebbia tra i rami scabri dell’albuccio, tremori di foglie che sospendono il corso del giorno. Il passo a lato rispetto al centro permette di cogliere fenomeni sul confine, ai margini, attraverso i rami spogli del pioppo bianco in inverno. I fenomeni, individuati se non addirittura “divinati” come presenze, si fanno strada tra le brume, si porgono alla percezione, e quindi alla conoscenza, in guisa di transiti e di mutazioni. Passaggi, come recita il titolo della poesia. Eppure c’è un momento in cui lo scorrere, l’attraversare si ferma, resta e sospende «il corso del giorno». È proprio alla «bambina distratta» - forse più de-centrata che deconcentrata – che spetta l’occasione di donare una veste poetica a quel momento. Dalla sezione Graffi LA SORTE E OLTRE Veste lacerata taglio sfregio orlo lembo da ricucire rete che afferra la sorte che nega l’oblio crepa della voce varco di preghiera. La sorte e oltre racchiude in sette versi scanditi con eguale misura – sono sette senari – un inventario che attira a sé, coniugandole, qualità opposte: è sobrio e solenne, semplice e carico di simboli, compiuto e volto a una prosecuzione. Tra i termini, con i sostantivi che costituiscono la netta maggioranza, sono quelli afferenti a tre campi semantici che si intrecciano, si danno il cambio e si ricombinano: la tessitura (veste, orlo, lembo, rete), lo strappo (lacerata, taglio, sfregio, crepa) e la ricomposizione (ricucire, varco di voce, preghiera). L’inventario si rivela allora una dichiarazione di poetica, la difesa appassionata di una poesia che «nega l’oblio», «afferra la sorte» e, in virtù di una «preghiera» che si manifesta come “canto alla durata”, crea e oltrepassa il varco. Anna Maria Curci

  • Carlo Di Legge su Autobiografia del silenzio di Cinzia Marulli (Ed. La vita felice 2022)

    Mi giunge per posta questa lettera di Carlo Di Legge su Autobiografia del silenzio. È emozionante la sua poesia riportata alla fine in assoluta comunione col mio sentire. Un dialogo poetico che mi ha commosso intensamente. Grazie, carissimo Carlo Cinzia Autobiografia del silenzio ed. La Vita Felice Milano 2022 Cara Cinzia, non mi sembra si possa dire molto sulla tua parola “insanguinata”. Parola di silenzio chiama parola di silenzio. Non ho, qui, criteri letterari da utilizzare – quelli mi appartengono poco, comunque – o filosofici. Forse potrei dire “fenomenologici”? Certo v’è, nei tuoi versi e nelle tue descrizioni, non certo di accompagnamento ma di sostanza, la ricerca della narrazione, una chiamata in parola a partecipare, al modo del lettore, delle cose per come devi averle vissute. Si capisce bene la scelta di “dare voce a tutti i bambini che, come la me di allora, non hanno avuto la forza né il coraggio di parlare” (p. 50). Ciò non toglie che non so chi altri, come te, possa arrivare a dare voce al coraggio; so, peraltro, che spesso è avvenuto e avviene. Il tuo silenzio di tanti anni è il silenzio tuo e, con te, di tutte le vittime (p. 50) di questo mondo strano e spietato. Certo. Anche di tutti i bambini che sono vittime tra le vittime di questi giorni tremendi, come ascoltiamo e vediamo. Ma infine scrivi che “la vita ha vinto sulla vita” cioè questo aspetto di vita e d’amore che hai avuto la forza di portare avanti ha prevalso su quell’altro aspetto. Siccome si tratta di “autobiografia del silenzio”, credo tu abbia ricercato una parola che si avvicinasse il più possibile al silenzio. Pertanto una parola scarnificata, povera e con ciò efficace, perché il messaggio pervenisse. D’altro canto la parola della poesia – o d’una prosa poetica – è per definizione ciò che più si presta. Io non so come si possa fare questo a un bambino, a una bambina, o anche a un adulto. A chiunque. Sono stato costernato nel leggere, e ho partecipato come mi riusciva, in luce e ombra d’ umanità. Io non so come tu abbia fatto a perdonare, con quale forza. Arrivare al punto da poter scrivere parole di perdono, come quando dici che l’orco cattivo “non è brutto come ci raccontano”, quando parli di “cicatrici”, o di quella bambina che ha trasformato “/in amore/ il suo dolore osceno” e addirittura “tiene tra le braccia l’uomo nero/lo accarezza e lo perdona/e con lui se stessa…” (p. 47). Grazie. Un affettuoso saluto. Carlo (Sto lavorando a questi versi, credo facciano al caso, e d’istinto te li regalo. Non ho mai fatto questo, ma non ho mai visto qualcosa “come” (?) il tuo libro). Tornando Sulla via stretta, trovo a terra un piccolo uccello che non vola, forse invece dell’alto cerca il tepore dell’asfalto. Salvato dalla strada, sta morbido in mano, lo poso su un ramo che viene dal giardino in basso: lui si appende, poi cade nel vuoto, apre le ali, mi regala un attimo di volo. Penso ai pericoli, un uccello non è come un uomo? Il mondo è strano. Ognuno è niente, chiunque è quasi un dio che può uccidere un altro, o lo salva, forse invano, e nessuno è salvo per sempre. Carlo Di Legge, Aprile 2022

  • L’animale della memoria” di Elsa Korneti tradotto e presentato da Alexandra Zambà

    L'ignorante nutre la sua memoria come un animale domestico con tossine e cibi grassi e altri elementi acidi e polinsaturi, e via via si gonfia e s’ingrassa e dal troppo accumulo diventa inattiva e si stende orizzontalmente. La sua memoria, un tempo fremente, diviene flaccida, sporca, ingombrante, rigida come la pietra. La sua memoria trema, scricchiola, si spezza e non si attacca più mentre giace esausto. Ed è allora che un programma fonico come un genio della lampada nervoso viene attivato dal suo fedele telefonino, così come lo strofina freneticamente ogni volta con un liquido antisettico per pulirlo. Allora uno strano fumo bluastro inizia a uscire dall’intelligente insonne smartphone che ha iniziato a somigliare ad una lampada magica. La magica lampada-cellulare immagazzina ciò che il portatore inspira ed espira, immagini di vita, esperienze ed esperienze che vengono trasformate in micro-pixel, magnetizzate tra loro e a loro volta immagazzinate dalla sua memoria alla memoria del telefono. Stralci di vita come versi sparsi, paragrafi cliché, prologhi irrilevanti, epiloghi ciarloni, rimandi lillipuziani, si attaccano tra loro, si ammucchiano in nuvole invisibili, dando vita a nuove forme di paradosso da una memoria reale che si svuota del passato, del presente e del futuro e si affaccia un'altra tecnica che parallelamente si riempie di tutto questo. Viene concepito un mondo nuovo, un mondo rinnovato con ciò che non è stato assimilato, indigesto, con ciò che è stato vomitato dal passato e dal presente si è assorbito dalla memoria dell’intelligente cellulare dal servizio della sua inconsapevolmente attivazione. E lui non capisce cosa sta succedendo, e lo guarda in profondità nei suoi occhi digitali, sullo sfondo dello schermo di cristallo. Aspetta che il volatile bluastro genio si affacci di nuovo, aspettando il riconoscimento e l'accettazione di un " Credo in te, non ho dubbi, tu ci riuscirai", finché un certo giorno l’oggetto mette fine alla sua angoscia e gli risponde: "Non hai più bisogno del maestro o del professor, solo di me per diventare una mia degna copia fallata”. Oramai ansima per messaggi e chiamate. Prega qualcuno di chiamarlo, apparire una immagine sullo schermo. Ma il dispositivo sembra muto e morto e le vecchie fiamme della vita virtuale giacciono congelate. L'ultima cosa che ricorda è quella testa pelata con le sopracciglia corrucciate nere e l’adamantina dentiera nel quadro che vaporizza, sorridendogli ampiamente con scintillanti lampi di malevoli saluti. Lui si rende presto conto che non ha più alcuna esistenza, perché tutta la sua vita, tutta la sua memoria, la memoria della sua vita è penetrata lentamente, insidiosamente, memorizzata nel suo cellulare intelligente e tutto ciò che possiede è un arioso, utile, bluastro genio con la dentiera adamantina scintillante, un genio che si comporta gentilmente, amichevole ed è in tutto e per tutto solidale; lui che ha perso la memoria perché proprio lei, la memoria, lo ha abbandonato obbedendo a un ordine ricevuto da un arioso e utile genio bluastro che vive inconsapevolmente nel suo smartphone; ha perso non solo la propria memoria, ma anche l'accesso ad essa, colei che oramai si trova stipata nella intelligente movibile lampada, e lui è rimasto bloccato dall'esterno, come cranio vuoto di memoria, incapace di ricordare la minima cosa, non essendo in grado di ricordare nemmeno la password di salvataggio. Una poesia di Elsa Korneti Κανονικέ άνθρωπε πες μου πώς μπορείς να ζεις χωρίς λοφίο χωρίς παρδαλή ουρά χωρίς μια γαλάζια ανταύγεια στα φτερά; Uomo normale dimmi come fai a vivere senza cresta senza una coda maculata senza un riflesso celeste alle ali? (traduzione di Alexandra Zambà) Elsa Korneti È nata a Monaco di Baviera nel 1969 e vive in Grecia. Ha studiato Scienze Economiche in Germania e in Grecia e ha lavorato come giornalista. Ha pubblicato dodici libri, otto dei quali di poesia. Un libro di traduzioni su poesie selezionate di Alda Merini tradotte in greco col testo a fronte. Due dei suoi libri di poesia sono stati selezionati e candidati, all'assegnazione del Premio Nazionale per la Poesia. Sue poesie sono state incluse in antologie greche e straniere e sono state tradotte e pubblicate in undici lingue. Pubblica regolarmente poesie, racconti, saggi, testi critici e traduzioni in riviste letterarie consolidate e traduce dall’inglese, tedesco e italiano. Una sua poesia trd. Alexandra Zambà:

  • "Non ho mai finto" (Ed. La vita felice 2021) di Monia Gaita letto da Cinzia Marulli

    Il titolo “Non ho mai finto” e i primi due versi che lo accompagnano Faccio finta di esser viva. /Stanne certo: sono un’abusiva ci portano immediatamente a comprendere che questo libro è un percorso esistenziale e spirituale dove l’unica certezza sembra essere quella del “fuori posto” (sono un’abusiva) esprimendo così una condizione umana che ancora non ha trovato la sua corretta e armoniosa collocazione in questo mondo e, stratificando i livelli di interpretazione, possiamo estendere questa inadeguatezza alla sfera sociale, psicologica, umana e perfino fisica e materica. Tuttavia vi è qui, in questi mirabili due versi anche una forza di volontà incredibile: la forza della donna, dell’essere umano di combattere per ottenere il proprio giusto posto nel mondo, nella società, nel cuore degli altri. Ma questo ce lo svelerà il libro che si dirama in tre sentieri principali: “Il ciclo del sentire”, “confluenze” e “a colloquio coi luoghi”. Il “ciclo del sentire”, è una sezione chiaramente dedicata al sentimento dell’anima e alle esperienze dell’esistenza. La poetessa scava, indaga, porta in superficie ed elabora in qualche modo il “dolore”. Scrive nella poesia “I tetti del respiro” di pag. 13: ...Quando il dolore/ mi scoperchiava i tetti del respiro; / avevo ancora un tisico giacinto di reazione, / un forse striminzito, / un tiepido sorriso. / …. Sono parole forti che ci portano dentro a questa dimensione di delusione e sofferenza. La musicalità del verso diviene dura, graffiante così come il dolore graffia la vita. Tutta la sezione è caratterizzata dalla presenza costante del senso della perdita e dell’assenza ad esempio in “Provo a dimenticarti” troviamo: E un Dio non c’è/ a rammendarmi lo strappo del perduto. / e ancora in “Quella me di prima” leggiamo: ...è traslocare nella vecchia casa/ del perduto, / guardare quella me di prima che sibila, indelebile, tra i rami/ e scruta da uno sbuffo della porta/ quel che sono. / fino ad arrivare a “Una presa salda” dove la perdita è di sé stessi: E io perduta/e con la bocca ancora da sfamare, / cercai una presa salda, un tetto/ nel tuo nodo. / Vi è in questa parte del libro l’elaborazione delle difficoltà vissute, delle delusioni, di un amore perso e forse mai ritrovato. Monia Gaita scrive in prima persona perché, lei donna, diviene tutte le donne che hanno vissuto, sofferto, attraversato sentieri di vita selvaggi e scoscesi e conclude la sezione con una poesia straordinaria, “L’impalcatura”, dove coesistono forza, coraggio, sofferenza, consapevolezza, rassegnazione e, credo, liberazione: L’impalcatura Hai deciso di andare. Non devo insistere, non devo dire niente. L’anima adesso è piena di rumori, beve d’un fiato il vuoto, perde peso, incrocia gli occhi degli dei irritati. Ora la forza dovrà riprendere a soffiare, ferma e insistente, da tutte le fessure. Ora dovrò perseverare nell’uguale, accendere le stelle cieche a quelle azioni che sembravano scontate. Eviterò di piantarmi nelle cose troppo a fondo e metterò le cicatrici ad asciugare con il coraggio della volta prima. Fuori dai malintesi e senza contrariarmi quando l’impalcatura, stanca di concepire, cade al suolo. La seconda sezione “Confluenze” è la prosecuzione del viaggio, il luogo della riflessione e della consapevolezza; sono poesie intrise di vita che non è mai troppo generosa. È come un dialogo che la poetessa fa con sé stessa e con tutte le confluenze della sua esistenza che è una scuola continua di esperienze e di dolori. Così scrive nella poesia “Presidiare” (pag.48): La vita passa fra una lezione e l’altra, /un clandestino entrare negli sbagli/ dalla porta posteriore, / uno schivare attivo e resistente/ i dispiaceri. / La lingua poetica di Monia Gaita è una lingua originale e personale; Monia è poetessa con un suo stile dove non c’è spazio per l’imitazione ma dove si sente la presenza dei grandi maestri che hanno sedimentato e ramificato. Ma credo che nella terza sezione “A colloquio con i luoghi” si compia definitivamente la “parola”; qui, dove il vissuto dei luoghi e l’amore per essi diviene materia, a volte rarefatta e onirica e altre volte densa e corposa, troviamo un’intensità rara, una poesia, dal mio punto di vista, altissima e il cui “sentire” è talmente profondo che va oltre il luogo narrato e amato, diviene ricordo e speranza e si trasforma nel luogo della nostra anima. Così leggiamo una poesia raffinata e fortissima dedicata alla terra natia della poetessa, l’Irpinia, e credo che a questi versi non si possa aggiungere e dire null’altro: Sono partita Sono partita, ho fatto scorta di verde e sono andata. Ora m’immergo nell’emicrania dei montaggi, dei contafili azionati dai pulsanti. Quando ho riavvolto la storia dei miei anni, gli esami, lo studio, le rinunce, avevo l’amarezza di un cratere dentro il petto. Non è servita la mia laurea. Ha traslocato di ripostiglio in ripostiglio, in molti vuoti navigabili, nella peluria del soffione quando vola e si disperde. Sono partita, ma non dimentico l’Irpinia. Resto ancorata all’utero dei campi, covo la prole delle spighe, la proteggo fino al millimetro finale della schiusa. L’Irpinia mastica i suoi figli e li sospinge dove si ingrossano gli ovari della nebbia e il traffico del centro s’attacca con l’uncino dei rumori sulla pelle. Sono partita, ma non dimentico l’Irpinia. E mi strofinano gli omeri delle vigne, la cartilagine del vento e delle piante. E quando il forno pone a bollore l’acqua dei ricordi, estraggo dall’archivio gli annegati, corazzo le mie gambe col tronco dei castagni. Sono partita, ma non dimentico l’Irpinia. L’Irpinia delle chiese e delle volpi, L’Irpinia delle pale, dei carpini, dei faggi, l’Irpinia con le tempie corrotte del moderno. Io non dimentico l’Irpinia, L’Irpinia di mio nonno con gli occhi da brigante. Irpinia madre, Irpinia del mio sangue. E' possibile acquistare questo libro presso tutte le librerie italiane o ordinandolo on line qui: http://poesia.lavitafelice.it/ https://www.amazon.it/non ho mai finto https://www.ibs.it/non-ho-mai-finto- https://www.lafeltrinelli.it/ ttps://www.abebooks.co.uk https://www.unilibro.it/ https://www.mondadoristore.it/ https://www.libreriauniversitaria.it

  • Marvi del Pozzo su "Transiti poetici" Volume XXIII a cura di Giuseppe Vetromile

    L’instancabile, meritoria attività culturale di Pino Vetromile prosegue anche nei tempi difficili della pandemia anzi, proprio per esorcizzare la situazione claustrofobica che limita esperienze e relazioni umane in modo frustrante, egli insiste ad additarci nella creatività della poesia una medicina ai momenti bui e una possibile guida verso atteggiamenti positivi di vita. Dare voce a progetti, speranze (ma anche a sogni e a illusioni, che magari non porteranno a niente di concreto) è un modo in sé costruttivo e ha un’indubbia valenza di aggregazione artistica e soprattutto umana anche a distanza. Questo, credo, lo scopo precipuo per cui Vetromile persiste a ‘pubblicare’ on line l’Antologia di poesia contemporanea Transiti poetici, che arriva oggi al volume XXIII. Nel presente momento di terza ondata di pandemia, i dieci autori del volume, provenienti dalle più disparate regioni italiane, si sentono mentalmente quasi amici per comunanza di intenti, cioè l’identico amore per la poesia. È un indubbio avvicinamento, pur nella disparità delle forme del dire, ma soprattutto ciascuno di noi poeti ipotizza la bellezza della possibile condivisione con lettori, di certo sconosciuti, con cui intratterremo relazioni tramite le nostre parole poetiche. Non li conosceremo mai personalmente, ma forse qualche nostro verso sarà servito a fare pensare, a dare una speranza, a colmare un vuoto dell’anima, a rispondere a interrogativi. È questo l’ottimismo della vita e dell’arte che irrompono quando meno uno se lo può aspettare. Grazie dunque a Pino per esserci e coltivare questa funzione concreta e benefica dell’arte della parola poetica. Nei dieci autori del volume XXIII ciascun lettore troverà la voce a lui più congeniale, a seconda del gusto personale e della propria ‘idea’ di poesia. Personalmente di Sara Albarello amo il senso pieno della sua frammentarietà eloquente: una incisività del dire che lascia spazio all’interiorità di chi si avvicina alla sua poesia. Separazione Che trova il vuoto interiore. Margini interrotti In un interiore sconfinato Dove la completezza dell’io È solo sognata. Di Ada Crippa amo la discorsività descrittiva, che mi ha evocato immagini stupende della campagna lombarda e mi ha riportato alla mente la religiosità arcaica contadina di certe scene indimenticabili del film L’albero degli zoccoli di Olmi. Due forme artistiche, la cinematografia e la poesia, che possono compenetrarsi bene e potenziarsi reciprocamente. Oh! quanto mi piacciono i villaggi contadini dove le oche passano davanti agli usci delle case col loro passo dondolante bianco di piume riflesso nelle pozzanghere dopo la pioggia villaggi che ancora durano nella loro spoglia essenza in terre lontane filmate che vedo scorrere col fiato dello stupore sullo schermo televisivo richiamano le immagini il mio tempo bambino e mi dicono la distanza temporale delle realtà immutate bambini ora – come me che fui a radunare oche a sera Ferito il silenzio Di Annamaria Giannini mi ha colpito l’assoluta originalità dei testi, che tuttavia mi hanno creato momenti di disagio, va detto, per le scelte dell’autrice molto vicine a quelle di un… anatomopatologo! Ci vuole una bella capacità per poeticizzare una materia scientifica come l’anatomia, così fredda, quanto mai distante dalla creatività poetica. Lei riesce, tanto di cappello, a portarci dalla ‘lezione di anatomia’ alla riflessione poetica con grande disinvoltura. Sono duecentosettanta le ossa di un bambino soltanto duecentosei quelle di un uomo crescendo si saldano segmenti di scheletro la cartilagine tenera diventa duro tessuto osseo saremo più resistenti verrebbe da pensare invece ci frammentiamo facile si spezza il cuore, cedono le gambe la mente vacilla, è tutto un raccogliere pezzi intorno, la vita Di Alfonso Graziano sottolineo Stasera anche il cielo borbotta. Tutti borbottano. I cani abbaiano. Il vento sbatacchia. I vetri stridono. E si rabbuia la strada. Dei passi svelti i lacci sciolti e il rischio d’inciampare, nel nulla. I primi sei versi, scabri: soggetto e verbo, nella frammentarietà del periodare, sanciscono l’idea di un equilibrio precario della vita, anzi diciamo pure squilibrio, che si chiarisce nel più mosso periodo finale, con la conclusione amara di un pessimistico nulla. Se Graziano colpisce per la sua sintesi lapidaria, viceversa Iole Chessa Olivares ha un dire ampio e solenne, ama scrivere diffusamentte più che suggerire e lasciare spazio alla creatività interpretativa del lettore. Nell’impossibilità, per via dello spazio, di riportare un intero lungo testo, inserisco di Solo il canto i primi undici versi perché, a parer mio, costituirebbero di per sé un componimento sintetico pienamente compiuto. Quindi un perfetto esempio di poesia. Solo il canto Nell'odissea dell'epilogo si vorrebbe far finta di niente, svezzarsi alla vita, avere con suprema adesione una sola immagine, senza maschere. Si vorrebbe... ma, tra le fessure intime, cova il patire amaro d'essere scintilla solo per svanire […] Di Stefania Onidi voglio ricordare la bella poesia Cabirol Cabirol Come quando guardavo il mare in cima alla scala di Cabirol con la tua voce aggrappata alla mia spalla. Attenta, non scivolare, dicevi. Tu che appartenevi al sasso e all’erosione. Io che correvo il rischio di una canzone sciocca. Il vento mi cacciava in bocca i capelli e il sale e tutto quell’azzurro bruciava in gola come una biglia di spilli. Qui è ancora tutto troppo grande. La scala del Cabirol, vicina ad Alghero – a Nord Ovest della Sardegna, presso Capo Caccia – è composta da seicentocinquantasei gradini che scendono fino al mare alle Grotte di Nettuno, in un tripudio di azzurro marino e di verde di macchia mediterranea. La poetessa di origine sarda ci offre un testo di grande immediatezza e di incredibile, evocativa, suggestione. Noi siamo lì, insieme ai protagonisti della poesia: sentiamo con i sensi il profumo del mirto e del lentischio, la salsedine dell’onda marina, ma ci appropriamo con la nostra interiorità di tutta la potenza, anche metaforica, di quell’immagine di grandiosa forza naturale e ne restiamo kantianamente annientati. Regina Resta con il suo Autunno ci introduce invece a un lirismo quasi classico, nei toni elegiaci del trascorrere dei tempi delle cose. Il tono di pacata malinconia, che pure non esclude sofferenze, ci porta a un senso positivo di consapevolezza e di raggiunto equilibrio. Questo tono accorato ci permette quindi di credere e sperare in un’ultima stagione d’amore. Autunno Non è l’autunno a farmi paura grossi nuvoloni bianchi nel cielo attraversano il tempo con scrosci di pioggia prima deboli e poi come una tempesta a lavare le menti. È il mio autunno che avanza, il freddo non è sbocciato ma nell’aria si sente il profumo di muschio e muffa dei ricordi sempre più sfocati. La pelle si ricopre di uno strato leggero di foglie macchie sfumate che ti portano alla realtà di un’età che avanza. C’è il sapore di una stagione meravigliosa quella della consapevolezza e degli ultimi cambiamenti del giusto equilibrio dopo anni di cammino. È tempo di riposo dalle lotte ma pronti per l’ultima stagione d’amore. Le poetesse lasciate per ultime, Terry Olivi e Angela Suppo, sono mie care amiche personali: conosco bene quindi le peculiarità caratteriali e quelle della loro scrittura. Le apprezzo tanto come amiche sincere e come poetesse, ma accennerò appena di loro, onde evitare di essere tacciata di favoritismo. Del resto le loro poesie parlano da sole, ogni cornice è superflua. Di Terry Olivi, esperta conoscitrice e cultrice dell’arte orientale, presento quattro haiku di straordinaria leggerezza. La delicatezza della persona di Terry si trasferisce pari pari in poesia. HAIKU Gabbiano solo alto sulla colonna, nostromo d’aria Roma, Santa Maria Maggiore, 2007 * Cinque cicogne sul palo della luce - una famiglia Ungheria, 1998 * Vento e fuoco pizzica la taranta - sola in cucina Roma, 2013 * Ormai è un anno anche nella magnolia un cerchio in più Velletri, 2006 Di Angela Suppo, poetessa dotata di ironia, di grande capacità di sintesi, creatrice di testi la cui suggestione si potenzia con l’abilità con cui dipana musicalità e ritmo del verso, segnalo una delle poesie che di lei prediligo da sempre. Non interessa a Dio il processo di qualità. Lui, già sazio del mondo, che vide buono, annoiato dall’inutile diluvio, si è arreso nel Figlio. Ora tace. E noi? A noi ha lasciato lo strazio del desiderio, la nostalgia, il cuore sospeso al Suo silenzio. Di Marvi del Pozzo, che sono io, non dico nulla se non che amo, talora in poesia, far parlare tramite me, come fossi una medium, poeti del passato. In particolare qui il protagonista è Jaufré Rudel, poeta provenzale medioevale, recentemente ritradotto dalla lingua d’oc da Piero Marelli. Un dire di spine e rose Jaufré Rudel a P.M. Profumano gli sguardi dell’amore di lontano non si sfrangiano in polvere ricordi mai vissuti né pallide bellezze appena immaginate. Amore di pensiero senza carne senza sesso. Perfezione nella teatralità di un’idea. Ma perché allora questo vuoto sgomento questo mio dire di spine? Di Giuseppe Vetromile, nostro anfitrione, non parlo in questa sede: tutti lo conosciamo non solo come infaticabile operatore culturale, ma come raffinato, sensibile, appassionato poeta. A lui, come Mecenate e come poeta, sempre il nostro grazie di esistere.

  • L'urlo della poesia: "Indiscrezioni dal fortilizio" di Sergio Carlacchiani (Edizioni RPlibri 2020)

    “Indiscrezioni dal fortilizio” è ben oltre che un libro di poesie (che già non è di certo poco), è uno scrigno che abbraccia, conserva e ci mostra una vita spesa con assoluta dedizione all’arte dove la “parola poetica” diviene sorella siamese dell’espressione figurativa. Così, Sergio Carlacchiani, già stimatissimo artista, ci dona questo libro irrinunciabile scritto con la penna e con il pennello e nel quale è impressa a fuoco la sua anima. La sua è una parola forte e indomita; è come l’urlo di un uomo che, pur riconoscendo la sua fragilità, non si piegherà mai al compromesso dell’esistenza stereotipata. Tutto il libro è permeato da un protagonista principe ovvero “la libertà”, che non è solo del corpo, ma soprattutto della mente e del sentire. Perché non esiste arte senza libertà e nello stesso tempo non esistono catene che possono imprigionare l’arte. Questa, secondo me, è l’essenza di Sergio Carlacchiani e della sua arte-poesia. Nel libro “Indiscrezioni dal fortilizio” pubblicato nel 2020 dalle Edizioni RPlibri troviamo poesie intense e delicatissime nel contempo e che vi invito a leggere con attenzione perché forte è il loro messaggio, potente la loco evocazione. Cinzia Marulli Da Indiscrezioni del fortilizio (RPlibri 2020) Siamo poesia matasse di nuvole da disbrogliare Anime belle siamo fantasia incontri casuali velati di malinconia ottime scelte marionette senza fili preghiere diventate musica conforto che l’esistenza propone nello smarrimento quando il tempo è sospeso tenuto vivo dalla parola indefinibile salvata dal manicomiale chiacchiericcio anestetizzante d’un pedante niente borghese che tutto vuole inghiottire siamo strani ritratti scontornati dal vento parliamo ai silenzi di tesori chiusi dentro imperscrutabili solitudini siamo come voli sospesi leggeri sacri chiamati dalla bellezza al sacrificio di schiudere ostili oscurità̀ colme di sofferenza che nell’aldilà̀ accompagnano e resistono con lo sguardo imperturbabile aperto rivolto a un cielo di vita che sbroglia matasse di nuvole per farne poesia a Dio gradita. Puntino luminoso indisponibile alla folla In questi giorni vago per l’Italia e il mondo per la mia città che si ripopola d’esistenze un’immagine che si restituisce alla vita e non si identifica con niente sono la soglia dove finisce ogni illusione dove lo schermo si lacera s’incrina s’ammutolisce di musica e voce svanisce restando puntino di luce fisso sul muro diventato elettrico sono ombra sfigurata incappucciata sono la vita spenta in un monitor il traguardo l’ultima tappa del magma non cercate da me spiegazioni non sono io che andrò a cercarle sono tornato bambino innocente sceso nelle profondità̀ dell’oscurità piango privo del giocattolo dell’identità. Dio fluisce gioioso M’inoltro in un sentiero di campagna so di regalarmi un tempo incantato rapisce una qualsivoglia apparizione straordinaria ogni volta come dorata la luce mossa da un vento spensierato la corsa a perdifiato sopra l’erba viva mi riporta indietro alla fanciullezza immutabile carezza come fosse la prima volta d’un epoca lontana la vita a volte segue un rimpianto ti lascia muto a invocare un affetto in un silenzio che non è solitudine ma in-canto gioioso respiro vitale che scorre invisibile inafferrabile dalla terra all’aria è il benevolo Dio che ogni rio peccato e colpa sperde il cielo svaria sulle selvose montagne le nuvole inseguono scrutano il verde. Al capezzale della sofferenza del mondo A notte fonda passo il tempo a frugare negli arcani pensieri il sogno è durato troppo poco già come un dannato diavolo che dall’abisso aspira alla luce girovago per le stanze della casa la luna solo un puntino luminoso appare e scompare dietro le nuvole vuole giocare a nascondino con me vorrei pregarla di dirmi la verità ma questo non è un momento propizio portavoce di luce indossa le tenebre che domani saranno un temporale resterò sveglio per commiserarmi muto attonito fisso come un lampione poserò lo sguardo nel vuoto assoluto al capezzale della sofferenza del mondo mi sento abbracciato una prece il silenzio gemo penosamente piango commosso.

  • Quinta vez (Stampa2009) di Mariapia Quintavalla letto da Cinzia Marulli

    Quinta Vez è un libro di Mariapia Quintavalla pubblicato nel 2018 da Stampa2009 con prefazione di Maurizio Cucchi. E’ un libro complesso, stratificato, spiazzante, fuori dai canoni e forse proprio per questo esso stesso canone. E’ un libro che si presenta articolato sia sul piano temporale, sia stilistico, sia contenutistico. Questo libro è un viaggio reale, onirico, spirituale, mentale. Tutto coesiste. E’ un libro libero, dove le varie dimensioni non solo convivono ma si completano. E’ evocativo e intimista, surreale e filosofico. E’ un libro umanissimo che traccia un percorso attraverso piani alternati e coesistenti. La Quintavalla percorre la figura “donna” in ogni sua sfaccettatura indagando sullo status di madre, figlia, sorella. Figure che nella sua scrittura sono come la trinità: tre e una allo stesso tempo. La madre che è anche figlia che è anche sorella. Estasiante è il modo in cui rappresenta non solo le figure in se stesse ma il rapporto esistente tra di loro penetrando nel sentire intimo dell’anima. Il libro è strutturato, ben definito, tanto da accompagnare il lettore attraverso il viaggio senza il rischio di uscire dai percorsi delineati, ma lasciando la libertà del sentire. Sono cinque le sezioni in cui è composto il libro e ognuna di loro ha caratteristiche stilistiche e semantiche differenti: sono i cinque percorsi dai quali è composto il viaggio; sono cinque piani spazio-temporali. La prima sezione s’intitola “Pre-natale” si presenta stilisticamente come una prosa poetica e come dice l’autrice stessa in una nota a fine libro tratta di China, cioè della madre dopo morta. E’ un dialogo tra la figlia viva e la madre morta. Ma l’autrice, quasi a indicare la sacralità del termine “madre”, lo usa, proprio per accompagnare il lettore nel viaggio senza devianze, solo due volte, nel primo testo della sezione: “Stamane mi sono svegliata già stanca e un po’ agitata come da un sonno duro e senza pace, e avrei voluto parlare con te, madre: “ e nel testo di pag. 29; “Era mia madre quella beatitudine di piccolo rosa e giallo che forava il bianco dell’aria, …”. Ed è proprio con il primo testo, a incipit, che Maria Pia ci prende per mano e ci porta con lei in questo viaggio di vita, ma soprattutto in questo viaggio dell’anima. Qui, in questi versi si svela l’intento del dialogo desiderato e perso. E prosegue scrivendo: “… mi sento così strana senza il nostro telefono senza fili, quei fili che ho cercato amorosi nel buio, per un po’, senza trovarli.”; esprimendo dunque lo smarrimento e il dolore per il distacco, per la perdita. Ha necessità di sentire la sua “voce” come legame etereo, immateriale ma indissolubile. C’è l’urgenza di afferrare i ricordi che chiama “tesori”. “La voce” torna come un assillo, una necessità ed ecco i versi: “Eravamo sole, e quest’immagine mi ha dato la carica nervosa, senza le parole ancora, che per giorni mi avrebbe lasciata in tormento.” Il rapporto madre-figlia, dovendo fare i conti con l’assenza, il distacco e diciamo pure questa parola che ci fa tanta paura, con la Morte, si eleva a una dimensione ultra corporea ma nello stesso tempo tangibile attraverso il sentire interiore. Quasi una sorta di schizofrenia immaginifica a tutela di un vuoto insopportabile. E questo legame che non è più materiale, corporeo, diventa paradossalmente più forte, più intenso. C’è una parola che torna ricorrente in questa prima sezione ed è la parola “aria. L’aria è presente ovunque. L’aria è la madre stessa, è l’assenza e la presenza allo stesso tempo. La materia non c’è più, si è dissolta, è divenuta aria. I due mondi del qui e dell’altrove coesistono e si parlano. Troviamo la madre-aria in molti versi come: i seguenti: “Così ho sentito che ti spostavi liberamente e che potevo farti dei cenni, circondarmi della tua aria…” (pag. 15) “E dove era caduta la rondine più alta, per forare spostandolo, il muro a me incompiuto, nel tremore di una singola canzone ci muoveva, l’aria forse ti cercava.” (pag. 17) La tua sottigliezza esile e nota, il tuo dimagrimento continuo fino a farti tornare a essere aria, aria che respira e fa riposare…” (pag 18) “Tu, quei rami spessi, qua nei colori compensati dal sentire, erano per tocchi e suoni, dal silenzio ribaciati! Dolce l’aria che li conteneva … “ (pag. 20) “Forai con le mani quel vuoto spesso più dell’aria, presi coraggio dall’essere già deste e feci un gesto, eccomi non temere, andiamo più dentro o più lontano, abbandoniamo l’impenetrabile e l’immobilità – mute. “ (pag. 24) “Ci abituavamo allo spostamento dell’aria, e con il respiro spingendocene fuori all’aperto, di nuovo lo scartammo.” (pag. 27) “Un purgatorio era il luogo cui facevo somigliare questa nostra aria piena di bianco, in una quasi pioggia trasmutata.” (pag. 28) “Era mia madre quella beatitudine di piccolo rosa e giallo che forava il bianco dell’aria, …” (pag. 29) “Né la voce unita all’estremo eterno, né le mani, quelle piccole e segrete, mi avrebbero più fatto cenno. Né le reti di memoria, le sue immagini ultime che si libravano dell’aria perché chiare e struggenti, troppo immacolate.” (pag.32) “Tu guardavi senza avere l’aria di vedere nulla, giacevi ti libravi eri pura musica di spazio, nulal più poteva toccarci come prima, sparimmo alla loro vista, mute.” (pag. 38) Dapprima la voce, poi l’aria. Il corpo non esiste più, ma le vibrazioni perdurano. Un altro elemento che mi ha avvolto in questa sezione è l’elemento natura o meglio il rapporto diretto tra “natura” e madre”; una sorta di osmosi, di trasformazione. Forse, inconsapevolmente, l’autrice, che sente il bisogno di mantenere il contatto, richiama il concetto tutto orientale del buddismo che ci porta a ridiventare tutt’uno con il tutto dopo la nostra ultima morte, quando, terminato il ciclo di rinascite, si giunge al nirvana, all’illuminazione. Ritroviamo questo elemento, per citare alcuni esempi, nei testi di pag. 18 “Quel bianco, breve sconfinato verso il cielo eri tu a carpirlo, ma i rami-mani e il calore vano, quel tocco della schiena tornata a vivere all’altezza del tronco, là tu per noi, più viva dei viventi ti faceva.”; di pag. 20 “Tu, quei rami spessi, qua nei colori compensati dal sentire…”; Il ritratto di Mariapia è quello di una madre-luce. In tutta questa sezione che è incentrata sul legame madre-figlia vi è una sacralità intensissima e a essere sacro per l’appunto non è solo la madre, ma il legame stesso. A questo punto vorrei fare una brevissima e sintetica digressione sulla figura della madre in letteratura. Essa è presente sin dall’antichità. Ricordiamo nell’Iliade la madre di Achille, la madre di Eurialo nell’Eneide, Venere con Enea. Per non parlare della figura per eccellenza della madre: la Madonna, la madre di Cristo. Per citare solo alcuni esempi. Tutte queste “madri” sono figure materne esemplate su un modello universale che le vede vivere in funzione del loro figlio poste in una dimensione quasi ultra terrena. Diciamo idealizzata. Si deve giungere all’800/900 per trovare un cambiamento. La madre cantata non è più quella di qualche personaggio reale o irreale, ma è proprio la madre dell’autore il quale si rivolge a lei con il tu: quindi la figura della madre diventa più concreta, più vera anche se continua a conservare il tradizionale ruolo materno . Possiamo citare Preghiera alla madre di Umbero Saba, La madre di Giuseppe Ungaretti, A mia madre di Eugenio Montale, Lettera alla madre di Salvatore Quasimodo, Preghiera di Giorgio Caproni, Supplica alla madre di Pier Paolo Pasolini. Da non dimenticare Vincenzo Cardarelli che ha cantato con infinito amore di sua madre e della sua assenza. Si discosta dai precedenti Elio Pecora con Nel tempo della madre (Ed. La Vita Felice) scritto in memoria della madre Elena e nel quale troviamo una madre non mitizzata, ma raffigurata nella sua umanità di donna-persona. Però si tratta sempre della visione di autori uomini . Molto più difficile è trovare autrici che parlano delle loro madri, ma ultimamente, per fortuna la voce delle donne inizia a farsi sentire e possiamo portare molti esempi di donne poetesse che hanno scritto della madre. Per citare alcune contemporanee c’è Vivian Lamarque con “madre d’inverno” (Mondadori 2016); la sottoscritta con “La casa delle fate (La Vita Felice 2017), Marzia Spinelli con “Nelle tue stanze” (Ed. Progetto Cultura 2012); le antologie “La tesa fune rossa dell’amore” e “Matrinilenare” edite rispettivamente nel 2015 e nel 2018 da La Vita Felice e curate da Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster e Anna Maria Robustelli che raccolgono poesie sul tema madri-figlie nella poesia contemporanea di lingua inglese e in quella italiana dagli anni sessanta ad oggi; Tutta questa digressione è stata necessaria per far comprendere l’immenso valore di Quinta Vez di Mariapia Quintavalla che non si è limitata a scrivere della madre e del rapporto madre-figlia, ma come vedremo andando avanti nella lettura del libro e come ho già scritto all’inizio, ha indagato sulla figura “donna” in ogni sua sfaccettatura: madre, figlia, sorella. Credo che fino ad ora questo libro sia unico nel suo genere e se non lo è, vi prego, ditemi a quale libro debbo fare riferimento. Il rapporto madre figlia di “Pre- Natale” è un rapporto interscambiabile e che si compie pienamente quando anche la figlia diviene madre (pag. 34: “Mai ti voltasti se non nell’attimo in cui baluginasti di me una donna, e divenute madri, mi chiamasti per nome.”). E’ un rapporto che non risiede negli affanni terreni, che appartiene a una dimensione cosmica, ma al contempo intimissima. Che non risiede nella mente, ma appartiene all’anima. Questa sezione è intrisa di tu e di noi ed è scritta quasi interamente in corsivo ad indicare non solo il dialogo, ma anche il sussurro di una dimensione ultracorporea e ultratemporale. La seconda e terza sezione del libro s’intitolano Mater e Mater II. Qui si uniscono la prima persona, la seconda e la terza. Si cambia la prospettiva, non è più la figlia a colloquiare con la madre, ma la figlia divenuta madre colloquia con la figlia. E’ un concetto bivalente che s’interseca e coesiste. Mariapia qui è figlia che scrive di se stessa come figlia ed è madre che scrive della figlia. Il registro cambia radicalmente e così anche il verso che non è più prosastico ma più breve, interrotto, singhiozzante. Non c’è più il corsivo perché anche la dimensione è cambiata: siamo nella vita, abbiamo abbandonato la dimensione dell’oltre, ma non c’è un tempo definito. E’ un presente eterno. Un presente che sancisce una condizione filiale che c’è, c’è sempre stata e ci sarà sempre. Il poemetto Mater si apre con un testo che definisce chiaramente il dualismo già da titolo: “Due sono una” dove si evidenzia la dimensione corporea, la figura filiale delineata da un essere che è a se stante, staccato, perché si rimane nella sola condizione di figlia fino a che non si diventa madre e la descrizione è luminosa: … i suoi occhi luccicano con una margherita appesa al lobo ma di luce propria senza infingimenti e lei là, un gran andare per una corsa sua segreta, tra fili d’erba e treni, caramente d’oro il suo sorriso. E’ la madre che dipinge il ritratto della figlia con un amore dolcissimo e mesto. Si tratteggia anche qui però il senso del distacco, è un distacco diverso da quello della madre morta, è il distacco opposto. E’ la madre che deve fare i conti con la disgregazione del cordone ombelicale, con quel desiderio forse insano, ma esistente di conservare la propria figlia nel grembo e invece deve assistere, paradossalmente con dolore e felicità insieme, al suo andare nel mondo, da sola. Così a pag. 44 leggiamo: Nel giorno che precede, la vedrai varcare sola, e sola sarai tu che là pazienti sulle orme della mani cerchi il tuo sangue quando volata via con te, ma dolcemente, piano, in una sua salita ne disegna l’arco intero di una vita piccola più della tua, sognata.“ E ancora leggiamo per intero il testo di pag. 48: Tu ti distacchi e sposti, la guardi scivoli via, piano per non ferirla ti mostri neutra amica, taci, ma lo diresti quanto sangue-voce ci è voluto per tagliare quel cuore intero in una luce sua, che ti divora. Scompare se c’è un emblema vostro, lei lo saprà capire, lei non ha paura. Tu, una chiave di notte nel suono delle sue parole ti ha acceso il video della mente e poi, non turba più: per quella mano speculum sul cuore ti senti piccola, e sperduta; la sua nascita va verso la tua morte. Ma lei serena guarda e stacca, non capisce. Nell’ultimo, strepitoso testo del poemetto Mater è tracciato per intero il percorso: c’è la figlia che guarda se stessa nel suo rapporto e addio con la propria madre e poi si guarda essere madre rivolta alla figlia: Uscendo piano dalle porte, credevi non udire quel pianto secco che ti prese nel salutare, quando tua madre nell’abbandonarti ancora, una seconda volta se ne usciva zitta e solenne, verso il suo bell’ade, fasciata in oro – andare nella vita. Ma Lei Sarah, nata dal riso domina nella silhouette radiosa, circonfusa. Mater II è una scrittura dolorosa. Non c’è più la luminosità di Mater. Il punto di vista cambia ancora. Qui viene messo in evidenza il fare della figlia più giovane, quella che ancora non è madre e il soffrire della madre che si sente incompresa, ripudiata, perfino odiata. E’ una sezione forte che rappresenta un altro modo d’intendere la madre, non più amata, necessaria, ma odiata, rivale. Leggiamo a pag. 56: II) C’è pena sotto la volta di Milano Di notte, la notte aperta fra lenzuola io parlo a voce alta comprimo, anzi comprendo sentendomi negare per ogni via il calvario di madre crocifissa, io cerco non vedere l’icona, oppure vorrei farla vedere e fatta, ma conchiusa lei va lontano blatera, sposta ogni suo gesto dove non esisto. Così entra la mia persona così troverà spazio e semenza per il suo fututo che oscuro se lo punge e bruca, come il suo dolore. Con la quarta sezione che s’intitola “Quinta Vez o del ritrovamento” entriamo in una dimensione onirica. Il tempo non è più quello contemporaneo ma è il tempo dell’immaginazione. La poetessa torna alla madre, ovvero a China, ma in un modo molto particolare: scrivendone un’allegoria che la riporta in vita giovinetta in terra di Castiglia come ci dice Mariapia stessa all’inizio della sezione. E’ una breve biografia che continua quella precedente presente nel libro China del 2010, ne è una metamorfosi. Particolarissimo è lo stile e come scrive Stafano Vitali in sua attenta recensione di Quinta Vez, con un tono che richiama i canti popolari trecenteschi e una struttura poetica che fa pensare alle Chansons dei Trovatori. Maria Pia usa un stile arcaico e immaginifico, unisce lo spagnolo, probabilmente proprio come dedica alla madre Castigliana, ma anche parole inventate, sognate. E una sezione magica e mitica: qui fa rivivere la madre come essere libero, felice, privo di costrizioni. Qui China è fanciulla, giovinetta e non è ancora madre e nel corso di tutta la sezione non lo sarà mai. Ciò mi ha fatto pensare che forse la libertà e la felicità di una donna, secondo Mariapia risiede nel suo essere donna e basta, senza la costrizione del ruolo di madre o figlia. Una sorta di liberazione da una condizione, sì naturale, ma anche imposta dalla società. Una condizione sia pur bellissima, ma comunque vincolante e costringente nell’animo e nel sentire. A pag. 70 leggiamo, in chiusura del testo: Belle le gambe e belli gli occhi scuri, forti le braccia nel danzare danze di vita, e danze della morta i n t e r a. E ancora il testo di pag. 72 dal titolo China era prodigio di canzone Quando di China si vedette il volto salire in aura, in benvoluta gloria China già più non era là seduta, ma distante volgersi e dire in addio serena le ultime care frasi della notte: quelle che di cantari, gesta e sacripanti donzelle e mostri, essa mostrava sé capace a recitare – modeste cupole, già case per la mente, di una speranza che la villa, e mente di Castiglia più non udiva. e quello a pag. 73 in chiusura della sezione Morì, Tradì scoppiò, dissolse sé, disparve non fu mai dato di sapere, ma servì a capire che China era prodigio di canzone meravigliosa creatura in luogo chiaro, corso di virtù serena – gioia nel corpo cibo della mente – angelo al tocco dei bambini salvi nel fiume corso della sua esistenza, frumento pane di virtù mai sorte sentimento del mondo, sua dizione. L’ultima sezione del libro “ Le sorelle” continua a sorprenderci. Si tratta infatti di un testo in prosa teatrale. E’ un dialogo tra due sorelle che s’incontrano in un luogo molto ben descritto all’inizio. E’ un dialogo incentrato sul loro rapporto, sulla loro incomprensione. Ognuna di loro è ferma e chiusa nel proprio ruolo. Ci sono i ricordi, le rimembranze che le riportano ad affrontare vecchi dissapori di bambine. Non c’è soluzione. In ultimo, mi sento di dover ringraziare profondamente Mariapia Quintavalla per la luminosità della sua scrittura e per questo libro che rappresenta un dono prezioso per tutti noi. Cinzia Marulli

  • Vanina Zaccaria legge "La parola detta" di Stefania Di Lino (La Vita Felice 2018)

    La Teogonia dello spirito di Stefania Di Lino Il battesimo della parola di Vanina Zaccaria Quando si offre ascolto alla parola altrui, all’intima vocazione che diviene lettera scritta e, dunque, corpo del pensiero, bisogna conservarsi sensibili e attenti all’offerta esistenziale che quella parola contiene, alla vicenda umana che si sforza di trasmettere e della quale rappresenta la sintesi altissima, l’irriducibile e personale epos di chi è impegnato nell’atto dell’esistere. È in questa maniera umanissima che si dovrebbe leggere La parola detta (La vita felice, 2017) della poetessa Stefania Di Lino, che si concede al mondo con vigore e verità. L’opera poetica s’apre come una splendida Teogonia e procede con la forza narrativa di un poema delle origini; del poema esiodeo conserva la persistenza del grandioso, difatti, anche quando si fa cupa e grave nella narrazione, la Di Lino proclama il mondo con una parola elevata e solenne, intimamente impegnata a testimoniare l’epopea umana. La parola detta è anche racconto che si porta all’inizio delle cose, che tenta di andare alle origini del sentimento e del dolore dell’esserci al mondo e capace di contenere, dunque, le notizie di una genesi e la tensione di un annuncio. L’eroe fondatore che narra le sue imprese è il poeta stesso, la vicenda intera contenuta ne La parola detta è la narrazione del narratore e del suo dono tremendo, la parola. Rimanendo nella nobile cornice di una grecità che tutti ci lega alla stessa radice originaria, va ricordato quanto nello spirito esiodeo il poeta assista la creazione e presieda all’ordine che lentamente si conquista; ogni teogonia è opera della conquista del mondo nel senso di una sua traduzione in un ordine simbolico comprensibile, anche quando quest’ordine storico viene celato nella metastoria del mito e delle azioni delle potenze numinose. Il poeta tragico, invece, assiste l’uomo nel travaglio, si sgomenta al cospetto di un ordine mai immediatamente decifrabile, la tragedia è difatti opera della frattura e della scomposizione. Nel lavoro poetico della Di Lino sussistono e convivono l’annuncio dell’esserci al mondo, una disposizione d’animo e narrativa tesa a rintracciare il criterio regolatore delle cose e lo sgomento tragico dell’impossibilità di compiere siffatto esercizio. Tale umano sgomento non si misura però al cospetto del dio e della sua volontà remota, ma al cospetto della vita stessa che diviene, nelle sue manifestazioni storiche, il titano cannibale, il terribile Crono che divora i suoi figli; la parola e le intenzioni della Di Lino restano fedeli alle miserie umane, alle minute vicende di ogni esistenza e la vita viene narrata nella sua indecifrabilità storica e culturale, sempre mancate e irrisolta sul versante spirituale. le distanze i perimetri/ le angolazioni / il goniometro giusto per la misurazione / e poi il metro lineare / quadro o cubico / il rapporto in scala / (di Policleto la proporzione) / la sezione aurea e non ultima / l’ispirazione. // La distanza utopica che avanza all’orizzonte / con quel punto di fuga a latere o a fronte // tutto mi disorienta / tutto è mancanza, Lo smarrimento dinanzi ai codici comuni e all’ordine che vogliono trattenere, sembra accennare a qualcosa di ancora più radicale: quella che viene narrata è la genesi del dolore, intesa come racconto dei luoghi in cui esso esordisce e inaugura le personali e infinite battaglie; i luoghi dell’attesa, dell’abbandono e del fallimento, che sempre testimoniano dello scarto tragico tra quello che volevamo compiere e quello che invece ci ha compiuto. Qui la frattura tremenda, il confine tra l’essere soggetti della nostra vicenda e l’esserne assoggettati; si tratta di quella crudeltà del caso che la Di Lino racconta senza fingimento e che diviene causa comune di travaglio, lamento collettivo che l’autrice canta per mantenersi vicina alle sorti universali. In questo La parola detta è teogonia dello spirito, perché contiene l’incipit delle sorti collettive e a quelle si rivolge con infinita grazia; sembra quasi che il “porto sepolto” della Di Lino sia il posto in cui convergono tutti i dolori e le umane fatiche e che il suo inesauribile segreto di scrittrice sia tutto in quella pietà storica verso il fratello uomo, dipinto sapientemente come un Cristo incerto e caduco, anche se si mantiene nobile il suo passo che misura e scrive la terra. le genti non appartengono mai /a un solo posto / mille latitudini attraversano / che fanno la storia / e longitudini / da cui pure sono attraversate / e aperte sezionate a metà / la testa spesso è proiettata a Nord / mentre il resto del corpo rimane a Sud / le braccia invece di aprono / quando a Est quando a Ovest / ma è solo col le scie disperate lasciate dal loro passo compasso / che si ha l’esatta misura del mondo, Questa narrazione tragica però non langue in se stessa, emerge a tratti l’amore come categoria dello spirito; l’amore è il vero annuncio, l’unica possibile buona novella che rende futuribile il futuro e sembra comporre ciò che è scomposto in nuove tenere forme. Se il dolore è un codice storico, l’amore sembra commerciare con le costruzioni cosmiche e le trame globali della natura, divenendo quasi sapere nomotetico da cui dedurre le leggi universali; questa straordinaria conversione dell’ordine storico in ordine naturale, rende il corpo che ama antico e mai vecchio, sempre in attesa del prodigio della creazione. da dove arrivano poi quelle mani / che presero a scavare lo sguardo / disarmato di un bambino / a soverchiarne la magia / a spogliare l’infanzia / dall’albero luminoso / delle sue epifanie / per trovare l'insano nutrimento di un morto? // Ed io che ti pensavo lieve tra i miei fianchi / a prenderti del giorno / ogni angolo di sole /a giocare sferico nell’acqua / tu che conosciuto eri / della stessa conoscenza che ha l’albero di radici e foglie / e di cromosomi antichi e di gameti / tu che conosciuto eri / eppure nuovo arrivavi / già chiamato / navigando lieve tra i miei fianchi / attraversando muto nell’ombra / ere e maree / tu riuscivi navigando / a risalire col sangue la mia aorta / a sederti sotto il mio ombelico / raccolto / tu / che mi guizzavi dentro / argenteo pesciolino / tu che ora affronti il mondo / con le mani di un pianista / e gli occhi scuri / furiosi di tuo padre. Va infine detto quanto, in questo ampio e complesso teatro diretto dalla Di Lino, la parola abbia un ruolo centrale e irriducibile. Essa è l’operazione della presenza umana che si fa presente e si annuncia nel mondo iniziando a fondare la storia; è l’operazione culturale, per entro un ordine naturale, che permette all’uomo di narrare la sua vicenda, è l’artificio creativo e rivelativo umano. Se, dunque, il mondo per esistere ha bisogno di essere pronunciato, la parola stessa è battesimo. Abbiamo bisogno, difatti, di un suono per esistere, del verso primordiale della madre che ci annuncia; così la Di Lino in una preziosa lirica dedicata al figlio Edoardo, sembra estrarlo dalla carne pronunciando il suo nome e pronunciandolo lo chiama in vita, lo decide tra i vivi, lo mette al mondo come materia e come spirito, lo concepisce come nuova genetica e nuovo pensiero. Di questa operazione di chiamare in vita le cose del mondo è ricca l’intera opera della Di Lino, votata a una parola abbondante, che si impegna a magnificare il dettaglio, che si preferisce gravida, ricercata e complessa perché è parola detta e in questo terribilmente più fragile della parola taciuta, in quanto esposta al rischio della compromissione e della caduta. Nel raccontare la genesi delle umane fatiche la Di Lino mantiene un atteggiamento quasi sacrale, tutto espresso nel suo dire prezioso, il dire di chi si impegna a rinvenire il nome delle cose per mantenerle in vita nella storia. e s’apre un’intera notte nello spazio della mia fronte Il poeta conserva in sé / un’antica tragedia / di cui ancora non conosce i versi

  • Dante Maffia legge "Amore senza fine" di Claribel Alegria (Ed. Fili d'Aquilone 2018)

    Bastano i versi sul quarto di copertina per attrarre l’attenzione seria di un lettore: “Un tempo / fui il tuo pianeta / ora sono un satellite / inondo il vento / di poesie / che lui si porta nello zaino / insieme alle foglie appassite”. Lirismo di altissima qualità, che si raggiunge solo se dentro si ha la valanga di un sentire acuto che cerca i legami con l’imponderabile e sa che tuttavia poi ci sarà la dissolvenza, che non è perdita, ma seme che si trasferisce in un altrove riservato agli eletti. Questo “Amore senza fine” è un libro di grande raffinatezza per una serie di motivi: innanzi tutto per la sensibilità di saper cogliere momenti delicati, trame sottili dell’anima, momenti irripetibili del senso del vivere e del morire, cioè dell’amare intensamente e vivamente, nella significanza più antica e più tenera. Poi per il “come” sono espressi i sentimenti. È nota l’affermazione di Oscar Wilde, “non esistono libri belli o libri brutti, ma libri scritti bene o scritti male”, ed è chiaro che quando si fa riferimento allo scrivere bene e allo scrivere male non è soltanto una considerazione di carattere puramente estetico. Le implicazioni corrono in varie direzioni e stabiliscono parametri che danno la certezza di essere nella compiutezza espressiva realizzata. Chi volesse entrare con pienezza e profondamente dentro le viscere segrete di questo libro deve assolutamente farsi guidare dallo studio introduttivo di Martha L. Canfield che ha saputo cogliere anche le sfumature più sottili di una poesia che è giocata spesso su equilibri sottili e perfino su riflessi e accenni. Credo che la Canfield sia stata una interprete che ha voluto assolutamente rispettare la “concretezza di un profumo”, come direbbe il poeta, per porgere a noi lettori un “tempio” di misure arcaiche modernizzate e rese alla portata di un ritmo nuovo pur nel rispetto del mondo primigenio. Lavoro simile, ma con un corpo a corpo rilevante e davvero straordinariamente riuscito è stato quello di Zingonia Zingone. Proprio perché lo spagnolo e l’italiano sono lingue sorelle gli agguati sono maggiori. Eppure la sostanza lirica e il pensiero di Claribel non vengono distorti e trovano anzi una cadenza legata indissolubilmente all’originale. Dettagli, questi, per far comprendere che non è stato facile offrire in italiano una voce così aperta e corroborata di sprazzi infinitesimali di luce, di minuzie ma solo apparentemente tali, di allusioni, di rimandi, di discese rapide nei meandri della psiche per poi “rinascere” con parola nuova, con abiti confezionati dalla luna o dal vento. Claribel Alegrìa non finge mai, non copre le emozioni e non svicola dinanzi a nulla. Credo che una scena come quella della scoperta del sesso da lei descritta in qualsiasi altra poetessa avrebbe preso una piega kafkiana, per fare un solo esempio. Lei invece riesce a tesserci la “fabula” e porta tutto in un’atmosfera diabolicamente e celestialmente mitologica. Un libro di questa portata dovrebbe essere conosciuto in tutto il mondo, perché è un viaggio dentro le tempeste e le carezze dell’amore, ma poi perché ci dà della donna il senso primo e ultimo della sua permanenza nel creato. Per ragioni molto diverse, ma altrettanto violentemente aperte alla verità, Claribel ci fa pensare alla Marina Cvetaeva: stessa libertà, stesso dolore e stessa gioia rapida, passeggera, stessa vitalità dolorosa. Ma siamo in un contesto diversissimo e dunque è solo una impressione, forse dovuta alla potenza espressiva, che mi ha fatto pensare a lei. Ma il pregio più straordinario del libro è il linguaggio che, pur restando saldamente legato alla grande tradizione ispano americana, tracima i luoghi comuni, cancella le esuberanze, non so, nerudiane, e si assesta su una trama sottile di espressività che sa andare al dunque senza ridondanze, senza barocchismi, senza toni aulici. Insomma, una grande poetessa, una voce densa e forte che lascia tracce indelebili nell’animo di chi la legge: “Voglio seminare parole / parole che assaltino la poesia / e la facciano parlare / e la infiammino. / Parole inospitali / e parole ospitali / parole che sorridono / e picchiano / scoppiano / e rimbalzano”. DANTE MAFFIA Claribel Isabel Alegría Vides, nota semplicemente come Claribel Alegría (Estelí, 12 maggio 1924 - Managua, 25 gennaio 2018), è stata una poetessa, giornalista e scrittrice nicaraguense autrice anche di alcuni saggi, considerata con la connazionale Gioconda Belli la maggiore esponente della Letteratura del Centro America e ritenuta candidata per il Premio Nobel per la Letteratura 2016. Nel 1943 si trasferì negli Stati Uniti per studiare e nel 1948 ricevette il B.A. (Bachelor of Arts), cioè la laurea, in Filosofia e Letteratura alla prestigiosa George Washington University di Washington D.C.. Tornata in Patria, legandosi al Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, d'ispirazione marxista, fu coinvolta nelle proteste nonviolente contro la dittatura del Presidente Anastasio Somoza Debayle. Nel 1979 Somoza Debayle cadde e il Fronte prese il potere in Nicaragua, ma l'Alegría, che nel frattempo aveva iniziato la propria carriera di poetessa, scrittrice, giornalista e saggista, decise di tornarvi solo nel 1985, cioè quando Daniel Ortega, dirigente militare del Fronte, divenne Presidente. Poetessa severa e critica, a volte pessimista, in un classico umore mutevole come mutevole è la situazione politica del Centro America, usa nelle sue poesie il linguaggio comune, del popolo, e spesso una sua composizione non supera la decina di versi. Ha scritto anche romanzi, racconti e storie per bambini. Nel 1978 ha ricevuto a Cuba il Premio Casa de las Américas, il più prestigioso riconoscimento letterario del Centro America, il Neustadt International Prize for Literature, conferitole dall'Università dell'Oklahoma nel 2006, il Premio Regina Sofia di poesia ibero-americana a Madrid nel 2017 e il dottorato honoris causa nel 1998 all'Eastern Connecticut State University e nel 2005 all'Università di León. In Italia è stata insignita della commenda dell'Ordine della Stella della Solidarietà Italiana nel 2010 e ha vinto il premio internazionale del Premio Camaiore nel 2016.

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