La Teogonia dello spirito di Stefania Di Lino
Il battesimo della parola di Vanina Zaccaria
Quando si offre ascolto alla parola altrui, all’intima vocazione che diviene lettera scritta e, dunque, corpo del pensiero, bisogna conservarsi sensibili e attenti all’offerta esistenziale che quella parola contiene, alla vicenda umana che si sforza di trasmettere e della quale rappresenta la sintesi altissima, l’irriducibile e personale epos di chi è impegnato nell’atto dell’esistere.
È in questa maniera umanissima che si dovrebbe leggere La parola detta (La vita felice, 2017) della poetessa Stefania Di Lino, che si concede al mondo con vigore e verità.
L’opera poetica s’apre come una splendida Teogonia e procede con la forza narrativa di un poema delle origini; del poema esiodeo conserva la persistenza del grandioso, difatti, anche quando si fa cupa e grave nella narrazione, la Di Lino proclama il mondo con una parola elevata e solenne, intimamente impegnata a testimoniare l’epopea umana. La parola detta è anche racconto che si porta all’inizio delle cose, che tenta di andare alle origini del sentimento e del dolore dell’esserci al mondo e capace di contenere, dunque, le notizie di una genesi e la tensione di un annuncio.
L’eroe fondatore che narra le sue imprese è il poeta stesso, la vicenda intera contenuta ne La parola detta è la narrazione del narratore e del suo dono tremendo, la parola.
Rimanendo nella nobile cornice di una grecità che tutti ci lega alla stessa radice originaria, va ricordato quanto nello spirito esiodeo il poeta assista la creazione e presieda all’ordine che lentamente si conquista; ogni teogonia è opera della conquista del mondo nel senso di una sua traduzione in un ordine simbolico comprensibile, anche quando quest’ordine storico viene celato nella metastoria del mito e delle azioni delle potenze numinose. Il poeta tragico, invece, assiste l’uomo nel travaglio, si sgomenta al cospetto di un ordine mai immediatamente decifrabile, la tragedia è difatti opera della frattura e della scomposizione.
Nel lavoro poetico della Di Lino sussistono e convivono l’annuncio dell’esserci al mondo, una disposizione d’animo e narrativa tesa a rintracciare il criterio regolatore delle cose e lo sgomento tragico dell’impossibilità di compiere siffatto esercizio. Tale umano sgomento non si misura però al cospetto del dio e della sua volontà remota, ma al cospetto della vita stessa che diviene, nelle sue manifestazioni storiche, il titano cannibale, il terribile Crono che divora i suoi figli; la parola e le intenzioni della Di Lino restano fedeli alle miserie umane, alle minute vicende di ogni esistenza e la vita viene narrata nella sua indecifrabilità storica e culturale, sempre mancate e irrisolta sul versante spirituale.
le distanze i perimetri/ le angolazioni / il goniometro giusto per la misurazione / e poi il metro lineare / quadro o cubico / il rapporto in scala / (di Policleto la proporzione) / la sezione aurea e non ultima / l’ispirazione. // La distanza utopica che avanza all’orizzonte / con quel punto di fuga a latere o a fronte //
tutto mi disorienta / tutto è mancanza,
Lo smarrimento dinanzi ai codici comuni e all’ordine che vogliono trattenere, sembra accennare a qualcosa di ancora più radicale: quella che viene narrata è la genesi del dolore, intesa come racconto dei luoghi in cui esso esordisce e inaugura le personali e infinite battaglie; i luoghi dell’attesa, dell’abbandono e del fallimento, che sempre testimoniano dello scarto tragico tra quello che volevamo compiere e quello che invece ci ha compiuto. Qui la frattura tremenda, il confine tra l’essere soggetti della nostra vicenda e l’esserne assoggettati; si tratta di quella crudeltà del caso che la Di Lino racconta senza fingimento e che diviene causa comune di travaglio, lamento collettivo che l’autrice canta per mantenersi vicina alle sorti universali. In questo La parola detta è teogonia dello spirito, perché contiene l’incipit delle sorti collettive e a quelle si rivolge con infinita grazia; sembra quasi che il “porto sepolto” della Di Lino sia il posto in cui convergono tutti i dolori e le umane fatiche e che il suo inesauribile segreto di scrittrice sia tutto in quella pietà storica verso il fratello uomo, dipinto sapientemente come un Cristo incerto e caduco, anche se si mantiene nobile il suo passo che misura e scrive la terra.
le genti non appartengono mai /a un solo posto / mille latitudini attraversano / che fanno la storia / e longitudini / da cui pure sono attraversate / e aperte sezionate a metà / la testa spesso è proiettata a Nord / mentre il resto del corpo rimane a Sud / le braccia invece di aprono / quando a Est quando a Ovest / ma è solo col le scie disperate lasciate dal loro passo compasso / che si ha l’esatta misura del mondo,
Questa narrazione tragica però non langue in se stessa, emerge a tratti l’amore come categoria dello spirito; l’amore è il vero annuncio, l’unica possibile buona novella che rende futuribile il futuro e sembra comporre ciò che è scomposto in nuove tenere forme. Se il dolore è un codice storico, l’amore sembra commerciare con le costruzioni cosmiche e le trame globali della natura, divenendo quasi sapere nomotetico da cui dedurre le leggi universali; questa straordinaria conversione dell’ordine storico in ordine naturale, rende il corpo che ama antico e mai vecchio, sempre in attesa del prodigio della creazione.
da dove arrivano poi quelle mani / che presero a scavare lo sguardo / disarmato di un bambino / a soverchiarne la magia / a spogliare l’infanzia / dall’albero luminoso / delle sue epifanie / per trovare l'insano nutrimento di un morto? // Ed io che ti pensavo lieve tra i miei fianchi / a prenderti del giorno / ogni angolo di sole /a giocare sferico nell’acqua / tu che conosciuto eri / della stessa conoscenza che ha l’albero di radici e foglie / e di cromosomi antichi e di gameti / tu che conosciuto eri / eppure nuovo arrivavi / già chiamato / navigando lieve tra i miei fianchi / attraversando muto nell’ombra / ere e maree / tu riuscivi navigando / a risalire col sangue la mia aorta / a sederti sotto il mio ombelico / raccolto / tu / che mi guizzavi dentro / argenteo pesciolino / tu che ora affronti il mondo / con le mani di un pianista / e gli occhi scuri / furiosi di tuo padre.
Va infine detto quanto, in questo ampio e complesso teatro diretto dalla Di Lino, la parola abbia un ruolo centrale e irriducibile. Essa è l’operazione della presenza umana che si fa presente e si annuncia nel mondo iniziando a fondare la storia; è l’operazione culturale, per entro un ordine naturale, che permette all’uomo di narrare la sua vicenda, è l’artificio creativo e rivelativo umano. Se, dunque, il mondo per esistere ha bisogno di essere pronunciato, la parola stessa è battesimo. Abbiamo bisogno, difatti, di un suono per esistere, del verso primordiale della madre che ci annuncia; così la Di Lino in una preziosa lirica dedicata al figlio Edoardo, sembra estrarlo dalla carne pronunciando il suo nome e pronunciandolo lo chiama in vita, lo decide tra i vivi, lo mette al mondo come materia e come spirito, lo concepisce come nuova genetica e nuovo pensiero. Di questa operazione di chiamare in vita le cose del mondo è ricca l’intera opera della Di Lino, votata a una parola abbondante, che si impegna a magnificare il dettaglio, che si preferisce gravida, ricercata e complessa perché è parola detta e in questo terribilmente più fragile della parola taciuta, in quanto esposta al rischio della compromissione e della caduta. Nel raccontare la genesi delle umane fatiche la Di Lino mantiene un atteggiamento quasi sacrale, tutto espresso nel suo dire prezioso, il dire di chi si impegna a rinvenire il nome delle cose per mantenerle in vita nella storia.
e s’apre un’intera notte nello spazio della mia fronte
Il poeta conserva in sé / un’antica tragedia / di cui ancora non conosce i versi
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