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Taccuino dell'Urlo di Sonia Caporossi letto da Francesco Costa

Aggiornamento: 17 gen




 


Poesie selezionate: p. 41, p. 52, p. 61.

 

Il libro – Taccuino dell'urlo (2020, Marco Saya Edizioni, ISBN 978-88-98243-90-7, pp. 66) è il penultimo lavoro di Sonia Caporossi - docente, musicista (con gli stupendi Void Generator), autrice di prosa e poesia troppo prolifica per essere presentata in poche righe, filosofa, saggista e certamente tante altre cose. Di lei si trova molto in rete e nelle librerie, recensioni e note critiche sul libro in oggetto si sprecano, tanto che mi è difficile avanzare la pretesa di dire qualche cosa di nuovo anziché limitarmi a tesserne le lodi. Difficile anche interpretarne il contenuto, considerato che l'autrice stessa ci mette in mano la chiave di lettura negli Indizi (p.3). Provo allora a gettare la chiave nel tombino metaforico di me stesso e vedere cosa salta fuori. Il Taccuino è complesso da inquadrare: si presenta come una via di mezzo tra un poema epico sul distacco e un frammentario flusso di coscienza, cambia spesso nella forma, gioca con la lingua, con i versi, con la formattazione del testo e la punteggiatura. Il casus è quello di un amore finito, di un lui che riflette e rimaneggia i ricordi confusi, sognanti e dolorosi di ciò che è stato e facendolo – attraverso una sorta di accidentato percorso psicanalitico che ricorda il disordine simbolico lacaniano – tenta di superare il trauma seppellendolo in sé stesso. Lei, l'altra protagonista, nelle parole stesse di Sonia, “interviene ogni tanto tra virgolette, come un fantasma che parla dall'altrove […] alla fine non significa più niente, se il niente è l’illusione autoindotta, se il niente è l’errore comune che non si compie mai se non in due, e viene sciolto solo quando si esce dal sogno e dall’inganno.” L'incedere ricorda l'indecifrabile Logica del Senso di Deleuze, viaggio periglioso su percorso accidentato nei labirinti della memoria, confusa, della rottura, del distacco, nelle distorsioni dell'assenza, un furioso rimestare nelle ferite aperte di uno spezzarsi. Il tutto è infarcito di riferimenti complessi, che non vanno neanche per forza sbrogliati, esaltanti giochi di rimandi, citazioni ed immagini che riecheggiano dentro mentre si legge, quasi come un'eco che rimbalza contro il petto e rende ancora più allucinata e salterellante una poetica che, spezzettata e aggressiva, s'impone sulla linearità narrativa. I corsivi, gli stampatelli, le rotture e ricomposizioni grafiche dei versi, le forme mutevoli, avvicinano il linguaggio a quello allucinato del ricordo o del sogno. La complessità stilistica è tenuta assieme da una tematica chiara, lapidaria, diretta: quella, già anticipata, del distacco. Mi azzardo a supporre che la fine di un rapporto amoroso sia al contempo il senso del testo e un pretesto. Mi azzardo a supporre d'essere di fronte ad una riflessione sulla rottura nel suo senso più profondo, sulla spirale emotiva imposta dal vanificarsi di qualcosa che sarebbe potuto essere e non è stato sulla complessità del percorso di ricostruzione del sé necessario per riprendersi e riconoscersi dopo un trauma. Il libro potrebbe tranquillamente parlare dell'abbandono di una dipendenza, del superamento di un lutto, della rinuncia ad un sogno – come tutti i sogni – irrealizzabile. E ne parlerebbe in modo straordinariamente efficace, tanto da essere riuscito, con il transfert sulla mia esperienza personale, a lasciarmi profondamente scosso, a squarciare il velo d'inebetimento e svogliatezza sentimentale di quest'anno a rallentatore che stiamo vivendo, circondati da un mondo che si disfa troppo velocemente per essere metabolizzato, da lutti insuperati, dal torpore di una vita messa in pausa. Ho sofferto il male dei vent'anni leggendolo, il male dei distacchi, delle disillusioni, della furia (auto)distruttrice dei ricordi. Per dirla come mangio, se ho tremato nonostante gli arzigogoli e le sperimentazioni della parola, strumenti che di solito mi distraggono dal nocciolo di un'opera e spesso mi respingono, c'è qualcosa di veramente notevole che s'annida tra le righe. Non saprei nemmeno indicare cosa, ma c'è e pulsa fortissimo, fino a spaccare il testo – nella sua triplice dimensione linguistica, formale e narrativa – per prendermi a pugni in faccia.

 

Istruzioni per l'uso – siamo all'entrata di un labirinto. Servono concentrazione, lucidità e pazienza. Siamo all'inizio di un campo minato. Servono mano ferma e occhio vigile. Siamo di fronte alla porta dello psicanalista. Servono nervi saldi e la voglia di spogliarsi di fronte ad una sconosciuta che ci mette a nudo con immagini turbolente e parole come lame che strappano la scorza che ci costruiamo addosso per sopravvivere ai passati, molteplici, che ci premono addosso come un amore finito o le labbra del fantasma che lo incarna. Dietro (dentro) lui, lei, il distacco, la perdita, ci sono i tuoi spettri che bussano alla pagina. Il libro si legge lentamente, con attenzione. L'attenzione che serve per decifrare un lavoro difficile e quella necessaria a superare un ponte traballante dove il cordame, le assi e l'abisso siamo noi.

 

Il commento –  come nella psicanalisi, il percorso è l'arrivo e l'analisi è indifferentemente mezzo, metodo e risultato. Il Taccuino è difficile da maneggiare, l'urlo è assordante e terribile. L'urlo è liberatorio e necessario. L'urlo è al contempo un atto di coraggio e di abbandono, di rivalsa e di resa.  Il Taccuino è anche un bellissimo libro, duro, difficile. Affrontatelo.




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