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  • Il senso storico della poesia: Democrazia di Alberto Toni (Ed. La Vita Felice -Collana Sguardi 2011)

    Si tratta, come del resto ci suggerisce il titolo “Democrazia” di un poemetto di carattere civile che riporta all’inizio una introduzione nota-critica di Gabriela Fantato (curatrice della collana) e una post-fazione di Elio Pecora. Il Poemetto è diviso in cinque parti. La prima parte incomincia con una citazione tratta dal romanzo “Primavera di bellezza”di Beppe Fenoglio («Hai un’idea dei morti? Il bollettino dell’una dovrebbe già parlarne.»/«Vuoi che in un’ora li contino tutti?»/«Non lo riveleranno mai, credi a me, mai. »/ «Uno almeno di quei bestioni lo avranno abbattuto?): che ci introduce nella seconda guerra mondiale, ci rappresenta l’orrore della guerra con i suoi morti, ma anche la sua ipocrisia (non ce lo riveleranno mai). Tuttavia non è esatto definire un tempo perché una delle sensazioni più forti si provano leggendo il poemetto di Toni è proprio quella di ritrovarsi oltre il tempo, in una dimensione atemporale. La guerra, dunque, poco importa se è la seconda guerra mondiale, è la Guerra, il concetto stesso nella sua essenza ad essere preso in esame, sono tutte le guerre del mondo, quelle passate e quelle potenzialmente future. Qui, in questa prima parte la guerra viene esaminata, sezionata, condannata e perfino superata con una visione nel bene e nella speranza, non siamo infatti di fronte ad una poesia civile fine a se stessa, ma ad una poesia che definirei anche di “esortazione” nella quale è forte il senso della coscienza e la consapevolezza del bene da conquistare, un bene visto come fine verso il quale tendere e in cui credere: la bontà dedicata all’eroe nell’atto/supremo, il figlio ritrova il padre,/con lui scrive la legge, la ritaglia a/misura d’uomo, come non mai, una/fonte. Appare la figura delle “madri” portatrici di speranza, di nuove aperture, già consapevoli dell’assurdità della guerra: Qualcuno diceva la salvezza/ha bisogno del fuoco, le madri/in gesti di stizza verso i soldati/che non capiscono. Dentro la/tenda il puzzo è insopportabile./ Colpisce la poesia di Alberto Toni perché crea suggestioni. E’ una poesia che penetra, entra dentro, s’insinua, è una poesia che si “sente”, smuove le sensazioni, i sentimenti, le percezioni: non ci descrive la guerra, ce la fa vivere. Anche nella seconda parte l’apertura ci porta alla fine del conflitto: /…Un ragazzo sventola la bandiera/, ma soprattutto ci pone davanti a un fatto determinante: Democrazia è pazienza…./ In questo verso, in questa sintesi esemplare è racchiuso tutto il lavoro, il sacrificio, il credo, gli ideali che sono alla base della democrazia. La democrazia è una lunga, difficile e dolorosa conquista. Alberto Toni ci ne espone il senso profondo: Una cupola?Una guglia?Trova tu la consonanza/tra distruzione e pietra, tra fenomenali/conseguenze e cerchi magici della/comunità. La metteremo ai voti,/onesti, come abbiamo sempre fatto con gli altri./ Toni dunque ci ricorda che la democrazia non si fonda solo sulla conquista della libertà, ma che ha come fondamento l’onestà. Pazienza e onestà, tanto da sentire il bisogno di ripeterci verso la fine della seconda parte: Abbi pazienza./Per la democrazia abbi pazienza./… Nella terza parte si procede verso la meta , si cammina in avanti con sempre maggiore consapevolezza. E’ necessario guardare avanti senza soffermarsi a pensare a ciò che non necessità, bisogna concentrarsi e non recriminare su quello che non serve: Quello che non volevamo. Cancellalo,/toglilo dalla prospettiva: soltanto un peso,/e non abbiamo bisogno di ragioni/sfilacciate, tediose, ma di aria,/pellegrini./ E’ di nuovo una esortazione a non soffermarsi a guardare al negativo, ma a focalizzare lo sguardo verso la meta giusta, verso ciò che si vuole veramente, a non perdersi. Ma attenzione, non si può andare avanti senza ricordare il passato, senza tenerlo sempre bene in vista: …/ritaglia dalla ruota del camion il ritratto/di tua madre e tienilo sempre con te,/non puoi tentare il futuro senza il ritratto/di tua madre./ In questa terza sezione Alberto Toni si sofferma maggiormente sul significato stesso di democrazia, Anche il sorriso dovrà fondersi con il tuo./ Tutto il sacrificio nascosto, dirimere/ le questioni irrisolte, di sera davanti/l’uno all’altro, fino a quando non ci sarà/tregua. Non è forse racchiuso in questi versi il senso profondo della democrazia? sulla sua essenza: La quarta parte si apre con una citazione di P.P. Pasolini tratta da Transumanar e organizzar: - Come dice Euripide: «La democrazia consiste in queste semplici parole: chi ha qualche utile consiglio da dare alla sua patria?» - Siamo quindi un passo avanti nella ricostruzione, ma qui forte è il senso del sacrificio e del dolore. Cosa ci ha lasciato la guerra? Il dolore delle madri in lutto - e proprio per questo “Ora è tempo di lavoro” dice Toni. Tutti quei giovani morti non possono essere periti invano. Sono loro che hanno pagato per tutti e noi abbiamo il dovere di rendere sacre quelle morti attraverso il nostro lavoro per costruire un mondo di bene: “Chi ha qualcosa da dire di buono. Perché/ il sole è già alto e quello avanti sono un/ bel gruppo per l’avanguardia, le riserve/ ci sono, gli zaini, una bandiera rimediata./ E’ una sezione che porta alla riflessione e alla considerazione che la democrazia deve essere fatta con l’apporto di tutti, all’unisono. La quinta e ultima parte si apre con una citazione di De Amicis tratta dal libro Cuore: L’educazione di un popolo si giudica innanzi tutto dal contegno ch’egli tien per la strada. E’ dunque evidente qui il richiamo al senso civico di un popolo, alla sua capacità di relazionarsi in un contesto sociale. In questa parte è meno evidente il senso tragico, tuttavia rimane presente, anzi direi incombente, il dolore della guerra, il sacrificio della ricostruzione. Tutto il poemetto è un viaggio, una ricostruzione storica del sacrificio di tutti i popoli per la conquista di una società democratica e civile: dalla guerra, dal dolore estremo profondo si deve uscire e percorrere con pazienza e onestà un sentiero fatto di lavoro e di ideali per raggiungere la meta. In un certo senso, quindi, questo poemetto potrebbe essere definito “di carattere storico” perché esamina con occhio attento la storia dell’umanità rapportandola alla nostra condizione attuale e ci lancia un monito, un avviso, quasi una preghiera: non sprechiamo quello che è stato conquistato con tanto sacrificio. Cinzia Marulli da Democrazia di Alberto Toni […] Nel fango, esterrefatti, andiamo a raccoglierli, vuoi vedere la mia giacca a brandelli e ciò che resta come in un museo di solitudine e di guerra? A turno, la parola, da nord a sud in assemblea, anche le madri, ciò che resta in un giorno qualsiasi in una primavera appena cominciata e bella. Pulire la strada, rassettare, prendere la parola, perderla, dividere, tacere, il tonfo, la gamba che fa male, ora mi fermo e ascolto, ora che tutto è deciso. Quando scende la notte sui tetti e tutto è fermo, lì non basta, non serve, non altro spirito che fermare la diaspora e scendere a patti in ombra. […] Democrazia è pazienza, abbonda la pazienza sulle nostre teste, nei cuori, la scia lunga degli automezzi al confine. Un ragazzo sventola la bandiera. Audace per scelta forzata di libertà – lieti saranno i giorni, in festa anche nei campi liberati, e il confronto serrato con la popolazione, serve tutto. Dovunque si alza un cuore, là si conservano intatti gli accordi. Il viaggio è ancora lungo e troppi sono i pericoli. Abbiamo pazienza e la pazienza è il ramo sempreverde. […] Abbi pazienza. Per la democrazia abbi pazienza. Una rinuncia o forse la miccia, Nino, come l’altro, Tito, seduti adesso a forza dopo una perlustrazione, le scosse dell’automezzo. E le dita provate, il cappello, stai buono se no ci scoprono. C’è di mezzo la politica. Ma il cielo, il cielo viola di cenere e lapilli, dopo lascerai il bel canto di lei per unirti a noi? Lei, la bella musicista a cui aspiri. Ti teneva con il bel concerto mentre fuori imbruniva e gli altri discutevano. La poesia che incendia e non lo sai nemmeno è più graffiante di una lettera da casa. […] Alberto Toni si è laureato all'Università La Sapienza di Roma in Lettere con una tesi sull'opera di Sandro Penna. Vive a Roma dove lavora come insegnante. Negli anni '80 ha partecipato a numerose letture pubbliche, tra cui il Festival Internazionale dei Poeti del 1984 nell'ambito dell'Estate Romana e ha pubblicato su diverse riviste di poesia, tra cui Nuovi Argomenti, Arsenale, Prato Pagano, Tabula (con una prefazione di Amelia Rosselli). Con la raccolta poetica Liturgia delle ore ha conseguito il Premio Internazionale Eugenio Montale. Dal 1984 al 1989 ha collaborato alle pagine culturali di Paese Sera. È autore di varie raccolte di poesia, racconti, testi per il teatro. La sua poesia, come scrive Alberto Bertoni nell’Almanacco dello Specchio, Arnoldo Mondadori Editore, 2009, si muove dentro una "radice comune", configurandosi come esperienza di una religiosità laica, dentro gli avvenimenti della storia e un vissuto privato. È anche autore di teatro: Gabriele! Gabriele!, prima rappresentazione al Teatro Politecnico di Roma con la regia di Giuseppe Marini, 1997; nuovo allestimento: Laboratori Metis Teatro, Casa delle Culture, Roma, con l'amichevole partecipazione di Walter Toschi nel ruolo di Gabriele D'Annunzio, adattamento e regia di Alessia Oteri, 2014; del 2003 il monologo in versi Donna su una poltrona rossa, (Editrice Ianua), al Teatro Argot con Paola Lorenzoni nell'ambito della rassegna Vetrina di Scena sensibile, Roma 2004. Ha tradotto, tra gli altri, testi di E. Dickinson, T. S. Eliot, M. Leiris. Scrive di critica letteraria su periodici e quotidiani. Il 18 agosto 2016 a Ponte di Legno è stato inaugurato il sesto Totem della poesia con un suo testo intitolato Legno. Ha pubblicato: Poesia La chiara immagine, Rossi & Spera, Roma 1987 (Premio speciale opera prima L'isola di Arturo - Elsa Morante) Partenza, Empirìa, Roma 1988 Dogali, Empirìa, Roma 1997 (Premio Sandro Penna) Liturgia delle ore, Jaca Book, Milano 1998 (Premio internazionale Eugenio Montale) Teatralità dell'atto, Passigli, Firenze 2004 (Premio Pier Paolo Pasolini) Mare di dentro, Puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2009 Alla lontana, alla prima luce del mondo, Jaca Book, Milano 2009 (finalista Premio Brancati, Premio Camaiore, Premio Dessì) ISBN 978-88-16-52037-0 Democrazia, La Vita Felice, Milano 2011 Un padre, in Almanacco dello Specchio 2010-2011, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011 Polvere, sassi, oli, Il Bulino, Roma 2012 Mare di dentro e altre poesie, e-book, LaRecherche.it in collaborazione con Poesia 2.0, 2013 Et allons, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2013 Stone Green. Selected Poems 1980-2010 (traduzione di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti), Gradiva Publications, Stony Brook, New York 2014 Vivo così, Nomos Edizioni, Busto Arsizio 2014 (secondo premio Pontedilegno Poesia 2015; finalista premio Nazionale Frascati Poesia - Antonio Seccareccia) Il dolore, Samuele Editore, Fanna (PN) 2016 Narrativa Quanto è lungo il sempre, Manni, Lecce 2001 L'anima a Friburgo, Edup, Roma 2007 Saggistica Con Bassani verso Ferrara, Unicopli, Milano 2001 Livorno, Unicopli, Milano 2016

  • Riflessioni sulla poesia di Claudio Damiani di Cinzia Marulli

    Claudio Damiani: la poesia oltre il tempo e lo spazio - riflessioni sulla poesia di Claudio Damiani da "Poesie" (Fazi Editore) e "Sognando Li Po (Marietti). Parlare della poesia di Claudio Damiani è parlare di qualcosa che non ha confini, né geografici né temporali. In essa si ritrova tutta l’essenza del passato in una voce universale che non può essere relegata alla tradizione culturale e spirituale di un’unica civiltà, ma che scava invece nelle profondità della natura umana nella sua interezza. La poesia di Claudio, per sua natura, è dunque portata a trovare affinità con la poesia di altri tempi e luoghi proprio in virtù della sua universalità, propria tra l’altro, della vera e grande poesia. Claudio è lontano anni luce da essere poeta artefatto, la sua è una ricerca molto più profonda, vera, più vicina all’essenza. Non mi ha meravigliato dunque, leggere nella prefazione di Marco Lodoli al libro “Poesie” edito da Fazi le seguenti parole: Claudio leggeva Pascoli, Orazio e Caproni, sdegnava ogni moda letteraria, cercando una lingua che potesse parlare di ogni cosa senza mai tradire il vero. Prendiamo ad esempio una radicatissima tradizione orientale e in particolare cinese che imponeva agli aspiranti artisti, prima di potersi esprimete autonomamente, di copiare e ricopiare i grandi maestri del passato affinché assorbissero la loro arte, la loro spiritualità, la loro essenza facendola così tornare a vivere nelle nuove opere. Anche Borges, nel corso di alcune lezioni che tenne alla Columbia University e che sono state trascritte per intero e pubblicate ne “L’invenzione della parola” (Mondadori) richiama, seppur diversamente, questo concetto: Borges ci dice infatti che citare o addirittura usare per un proprio scritto un verso di un grande poeta non vuol dire copiarlo, perché, se ciò ci viene naturale, significa che quel verso è entrato talmente tanto dentro di noi da diventare nostro. Abbiamo in definitiva assorbito l’essenza del nostro grande maestro che quindi rivive in noi. Ecco, tutto questo “essere” e “rinascere” è forte nella poesia di Claudio Damiani, il suo richiamo ai classici e in particolare ad Orazio trova affinità e parallelismi anche nella poesia cinese di epoca t’ang che ha infatti molti accenni oraziani con l’invito al “carpe diem”, come scrive Riccardo Bertuccioli nella sua “Storia della letteratura cinese” edita da Sansoni. Ma forte e profonda è anche l’affinità con il pensiero taoista, anch’esso presente nella poesia cinese di epoca t’ang ed in particolare in Li Po (701-762). Il taoismo infatti esalta la spontaneità e la naturalezza; per esso il Tao, ovvero il principio supremo, la legge universale, esiste in tutte le cose e tutte le cose esistono nel Tao; fino a che le cose avvengono naturalmente tutto è armonico, la vita è vissuta bene solo quando l’uomo è in completa armonia con l’universo e il bene non è compiuto dall’azione spinta dal desiderio, ma dalla “inazione”, “wu-wei”, che è ispirata alla semplicità, a lasciare che le cose seguano le leggi universali della natura. Riprendo dunque alcune parole della prefazione di Marco Lodoli che mi hanno molto colpito in tal senso. Lodoli racconta di quando lui, Claudio Damiani e altri amici artisti e poeti avevano affittato un locale per aprire una galleria d’arte nel rione Monti di Roma e dice testualmente: Ricordo una discussione su come organizzare lo spazio che avevamo affittato.... Damiani parlava invece di uno spazio concavo, bianco, puro che accogliendo il mondo intero gli desse una forma chiara. Non bisognava fare niente, solo imbiancare e aspettare che tutto lentamente si definisse: Ecco quindi che ritroviamo in pieno, in modo assolutamente spontaneo, nel comportamento, nel pensiero di Claudio Damiani questo desiderio di abbandonarsi alle leggi naturali dell’universo, al suo armonico divenire. E questo pensiero che è coerente con la vita del poeta è inevitabilmente, anzi direi naturalmente coerente nella sua poesia nella quale si respira un profondo senso di armonia, dove il divenire del mondo e dell’esistenza dell’uomo è cantato con la stessa semplicità e naturalezza tanto invocata dai taoisti, dove l’amore per la natura e lo stupore di fronte alla bellezza dell’universo è sincero e puro come quello di un bambino. Come meravigliarsi allora del grande amore nato tra Claudio Damiani e la poesia cinese T’ang che lui ha conosciuto da ventenne nell’ottima traduzione di Benedikter (300 poesie t’ang), ed in particolare dalla figura e dalla poesia di Li Po, il poeta taoista per eccellenza? Attenzione, non si tratta di influssi, ma di parallelismi , di comunione di essenze. Claudio ha, molto probabilmente, letto le poesie di Li Po, ma non si è limitato a capirle, bensì le ha “sentite” perché in lui era insita la stessa universale ricerca di armonica semplicità. E tanto è stato felice nel ritrovare tale assonanza che ha sentito il bisogno di scrivere e dedicare una sua intera opera a Li Po, intitolata “Sognando Li Po” richiamando non solo il titolo di una famosissima poesia di Tu Fu, contemporaneo e amico di Li Po, ma anche esprimendo così il sentimento che ha provato quando è entrato in contatto con la poesia cinese. Mi sembra importante al riguardo citare proprio ciò che ha scritto lo stesso Claudio Damiani nella premessa a Li Po: “Ho amato la poesia cinese come qualcosa che mi spingeva oltre il mio tempo, in un futuro antico che m’appariva come un sogno...” Non mi resta che ringraziare Claudio Damiani per il dono dei suoi versi. Cinzia Marulli da Sognando Li Po L'addio A un certo punto, giunti su un'altura dove c'erano quattro baracche scesero dal carro. Cadeva ancora la neve dal cielo, e dai rami di un grosso pino sopra le loro teste. Il carrettiere slegò i cavalli. I due poeti e il seguito presero stanza nella locanda affumicata. Tutta la notte Li Po e Tu Fu alzarono le coppe; gli ufficiali del seguito s'erano presto addormentati, ma loro ancora amabilmente conversavano. Tu Fu parlò della sua casa natale, dell'infanzia felice nella natura, dei giochi, Li Po parlò della capitale, di feste e danze, dei giorni fugaci della giovinezza. Ed ecco si fece bianca la finestra dell'alba, una luce scialba, un biancore irreale penetrò nella stanza. Parlarono ancora dei loro morti, parenti e amici che avevano dovuto abbandonare. A un tratto Li Po si alzò, Tu Fu stette ancora seduto per un po', poi anche lui si alzò, stettero in piedi per molto tempo in silenzio, mentre tutti dormivano, nel silenzio della locanda. La neve fuori aveva smesso di cadere e il vento si era quietato. Li Po prese la bisaccia e s'incamminò sulla strada bianca. Da Il fico sulla fortezza Il fico sulla fortezza ha vita molto precaria perchè quando faranno i restauri sarà certamente tagliato. Però sta tranquillo sotto la luce del sole distendendo il suo ampio mantello disuguale, incurante dell’estetica, se ne frega di stare così in alto non soffre di vertigini si lascia accarezzare dalla luce e dalle brezze tiepide sente la nebbia, sente gli uccelli che parlottano tra i suoi rami. Claudio Damiani è nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo. Vive a Roma dall'infanzia. Ha pubblicato le raccolte poetiche Fraturno (Abete,1987), La mia casa (Pegaso, 1994, Premio Dario Bellezza), La miniera (Fazi, 1997, Premio Metauro), Eroi (Fazi, 2000, Premio Aleramo, Premio Montale, Premio Frascati), Attorno al fuoco (Avagliano, 2006, finalista Premio Viareggio, Premio Mario Luzi, Premio Violani Landi, Premio Unione Lettori), Sognando Li Po (Marietti, 2008, Premio Lerici Pea, Premio Volterra Ultima Frontiera, Premio Borgo di Alberona, Premio Alpi Apuane), Il fico sulla fortezza (Fazi, 2012, Premio Arenzano, Premio Camaiore, Premio Brancati, finalista vincitore Premio Dessì, Premio Elena Violani Landi), Ode al monte Soratte, con nove disegni di Giuseppe Salvatori (Fuorilinea 2015), Cieli celesti (Fazi, 2016). Nel 2010 è uscita un'antologia di poesie curata da Marco Lodoli e comprendente testi scritti dal 1984 al 2010 (Poesie, Fazi, Premio Prata La Poesia in Italia, Premio Laurentum) Ha pubblicato di teatro: Il Rapimento di Proserpina (Prato Pagano, nn. 4-5, Il Melograno, 1987) e Ninfale (Lepisma, 2013). Ha curato i volumi: Almanacco di Primavera. Arte e poesia (L'Attico Editore, 1992); Orazio, Arte poetica, con interventi di autori contemporanei (Fazi, 1995); Le più belle poesie di Trilussa (Mondadori, 2000). E' stato tra i fondatori della rivista letteraria Braci (1980-84). Suoi testi sono stati tradotti in diverse lingue (tra cui principalmente spagnolo, inglese, serbo, sloveno, rumeno) e compaiono in molte antologie italiane (anche scolastiche) e straniere. Nel 2016 è uscito il saggio La difficile facilità. Appunti per un laboratorio di poesia, Lantana Editore; Di recente pubblicazione (gennaio 2017) il saggio L'era nuova. Pascoli e i poeti di oggi, a cura di Andrea Gareffi e Claudio Damiani, (LiberAria Edizioni).

  • La forza della parola: I quattro tremori del giardino di Jean Portante (Ed. la Vita Felice 2017)

    I quattro tremori del giardino è un libro complesso, intenso, un libro che segna una fine e un inizio. E’ una storia intera, ma non la storia dei fatti, degli eventi. E’ la storia del sentire interiore. In questo libro c’è il bambino, l’uomo e il vecchio. C’è quello che non si vede, o comunque c’è la visione vera di un apparire diverso. Il titolo crea un collegamento immediato con Gitanjali, Il Giardiniere di Rabindranat Tagore. E sicuramente questi due libri sono fratelli, diversissimi, ma fratelli. Tagore ci parla del giardiniere in una metafora che rappresenta l’uomo che coltiva il giardino della sua anima e della sua vita. Portante ci parla dei suoi giardini, del loro tremore, delle macerie che li hanno sconvolti. Però, non possiamo parlare di I quattro tremori del giardino senza prima accennare alla sua origine, alle radici che hanno fatto germogliare questo libro. E’ necessario ricordare che l’autore è figlio di immigrati italiani, abruzzesi dell’Aquila, per la precisione di San Demetrio. Qui in questo luogo ci sono le sue origini, da qui parte il suo essere, il suo sentire. Jean ha anche vissuto da bambino alcuni anni a San Demetrio, tornando successivamente con la famiglia in Lussemburgo dove ha continuato a parlare l’Italiano con la madre, in una società però dove le lingue si sovrappongono: il francese, il tedesco e il lussemburghese. Dopo il terremoto del 6 aprile 2009 dell’Aquila, Jean scrive Après le tremblement dal quale è tratto il Quattro tremori del giardino. In questo libro Jean ci parla del terremoto e delle sue conseguenze. Jean ci dice: il terremoto ha distrutto il mio paesaggio interiore. Esso, il libro, anzi consentitemi il “lui” perché lo voglio trattare come una persona, con una vita e un respiro, è dunque la storia di un’anima, il suo travaglio, il suo viaggio nel mondo, dal sud al nord, il sud dentro al nord. E’ un libro che si apre al cambiamento, che, come l’araba fenice risorge dalle macerie. Il libro è diviso in 4 sezioni, molto diverse tra loro sia nel contenuto che nello stile. La prima sezione prevale l’anafora che qui diventa quasi un mantra. Tutti i testi poetici iniziano con a volte. Mi sono chiesta perché proprio a volte, cosa stia a significare. Non è sempre, non è mai, è a volte. A volte è dunque una sorta di precarietà, c’è e non c’è, è un bilico. E’ lo stato d’animo, il sentire dell’autore che si è sempre sentito un viaggiatore, un migrante. E’ la sua terra, la sua origine, le sue radice che sono solo a volte, la sua stessa esistenza. E’ dunque questo un libro che apre agli interrogativi e come tale ci porta a scavare dentro noi stessi e dentro alla storia dell’umanità. La seconda sezione (tutte le sezioni sono semplicemente numerate, senza titolo) si allontana solo leggermente dall’anafora. Magrelli,nella prefazione, parla di variazione para-anaforica. E’ il verbo vedere che si ripete in tutti i primi versi, ma anche qui ritorna all’interno del testo la locuzione a volte e spesso l’avverbio forse, così come molti i verbi al condizionale. Continua dunque il senso di bilico. Qui siamo di fronte a una poesia quasi surreale, onirica. La terza sezione è composta, invece, secondo la metrica dei tanka giapponesi (5 versi di 5, 7, 5, / 7, 7 morae o per semplificare sillabe – morae, per la precisione, è un’unità fonetica che rappresenta un singolo suono). Attraverso lo stile poetico Jean Portante crea un collegamento con il Giappone devastato pochi anni prima da un immane terremoto. Una dedica dunque, un sentirsi vicini nella lontananza. E’ questa una sezione di ricordi attraverso un viaggio spazio-temporale nella casa materna, dove sono presenti fortissime metafore. La quarta sezione non abbandona il richiamo costante a una specifica parola che qui è all’avverbio ancora. Siamo passati, perciò, dalla prima sezione con a volte che indica la precarietà, il bilico ad ancora che invece rappresenta la persistenza, passando per due sezioni dove predomina il senso della memoria o forse la ricostruzione di essa. Credo che l’autore voglia mettere tutti noi davanti a una realtà indiscutibile: la ricerca costante e inevitabile della ricerca delle proprie intime radici come aspirazione necessaria di ogni uomo per comprendere il cammino della propria esistenza. Cinzia Marulli da I quattro tremori del giardino di Jean Portante (Ed. La Vita Felice 2016) traduzione in italiano di Camilla Diez e Francesco Fava. Parfois quand l’horizon semble se rapprocher sans que la ligne qui lui doit la vie ne se rétracte mon œil qui embrasse tout cela ligne de vie horizon absence de rétractation fait un bond vers l’intérieur et le rêve qui ainsi est libéré prend la forme d’un oiseau allant se percher sur la corde à linge de notre jardin. C’est là que pourvu que le vent ne fût pas trop fort les draps pendaient jadis comme des morceaux d’aubes parfois c’étaient des aubes entières qui y pendaient et la corde était l’horizon sans que la ligne qui lui donnait vie ne se rétracte. A volte quando l’orizzonte sembra avvicinarsi senza che si ritragga la linea che gli deve la vita il mio occhio che abbraccia tutto questo linea della vita orizzonte assenza di ritrattazione fa un balzo verso dentro e il sogno che in quel modo è liberato prende la forma di un uccello e va ad appollaiarsi sul filo del bucato del nostro giardino. È lì che a patto che il vento non fosse troppo forte le lenzuola pendevano un tempo come pezzi di albe a volte erano albe intere che pendevano e il filo era l’orizzonte senza che si ritraesse la linea che gli dava vita. * Parfois mais je n’en suis pas sûr le jardin dont je parle prenait le chemin le plus court pour parvenir aux secrets qu’il ne savait pas taire. Il arborait alors une soumission particulière avant d’empoigner une pelle et de la planter dans le sol. Et quand il se mettait à retourner terre et ciel et que les nuages comme des mottes désarmées étaient ensevelies par tant d’ardeur ou qu’au-dessus de tout cela volait un corbeau qui en savait plus long que moi je me disais parfois mais je n’en suis pas sûr que tout ce dont je pourrais me souvenir est régi par le mystère de l’ensevelissement. Sous la terre retournée les mottes de nuages renouent avec une ancienne coutume qui remonte à des temps où quand il fallait pleurer les larmes prenaient le chemin le plus court quand une pelle les retournait et qu’elles se mélangeaient à la terre ennuagée. A volte ma non ne sono sicuro il giardino di cui parlo prendeva la via più breve per arrivare ai segreti che non sapeva tacere. Inalberava allora una sottomissione particolare prima d’impugnare una pala e di piantarla nel suolo. E quando si metteva a rivoltare terra e cielo e le nuvole come zolle disarmate erano seppellite da tutto quell’ardore o in alto sorvolava un corvo che la sapeva più lunga di me io mi dicevo a volte ma non ne sono sicuro che tutto quel che potrei ricordarmi è retto dal mistero del seppellimento. Sotto la terra rivoltata le zolle di nuvole riannodano un’antica usanza che risale ai tempi in cui se si doveva piangere le lacrime prendevano la via più breve quando una pala le rivoltava e si mescolavano alla terra rannuvolata. * Ce qu’on voyait quand le brouillard se levait c’était le soc qui labourait les âmes dans un champ jadis fertile. On aurait dit qu’un soleil se réveillait tant les semeurs avaient les mains pleines. Peut-être que si aujourd’hui on y regardait de plus près on verrait les ombres des semences tomber dans les sillons. Peut-être qu’aujourd’hui ce qui se réveillerait prendrait la forme de la mort. Peut-être qu’un signe de mort se réveille aujourd’hui. Quello che si vedeva all’alzarsi della nebbia era il vomere che arava le anime in un campo un tempo fertile. Avresti detto che era un sole a risvegliarsi da quanto erano piene le mani dei seminatori. Forse oggi a guardarle un po’ più da vicino si vedrebbero le ombre dei semi cadere dentro i solchi. Forse oggi quel che si risveglierebbe prenderebbe la forma della morte. Forse è un segno di morte che si risveglia oggi. _________ Jean Portante è nato nel 1950 a Differdange, città mineraria del Granducato di Lussemburgo, figlio di emigranti italiani. La sua infanzia, raccontata nel suo romanzo Mrs Haroy ou la mémoire de la baleine, è stata segnata da una doppia appartenenza, o piuttosto una non appartenenza poiché si è spesso sentito, come ogni emigrante, figlio della terra di nessuno. Jean Portante comincia a scrivere a 33 anni. Prima ha studiato in Francia, a Nancy, dov'è stato protagonista delle manifestazioni del maggio '68 e professore di francese. Nel 1983, quando scrive la sua prima raccolta di poesie Feu et boue (fe e bu – fuoco e fango) si trasferisce a Parigi. Lunghi soggiorni in America latina gli hanno consentito di familiarizzare con la lingua spagnola e, parallelamente al suo lavoro di scrittore, vanta un'attività ventennale di traduttore (di Juan Gelman, di Gonzalo Rojas e di decine di voci poetiche di lingua spagnola, tedesca, inglese e lussemburghese). Anche i suoi libri sono tradotti diffusamente. Attualmente dirige a Lussemburgo la collezione Graphiti (poesie) di edizioni PHI e collabora al settimanale Il giovedì. In Francia è membro dell'Accademia Mallarmè e membro della giuria del Premio Guillaume-Apollinaire. Nel 2003 ha ricevuto il Premio d'Autunno della Società dei Letterati, per l'insieme delle sue opere, oltre che il premio Mallarmè. Precedentemente il suo romanzo Mrs Haroy ou la mémoire de la baleine gli era valso il premio Servais (miglior libro dell'anno). A Lussemburgo ha fondato la rivista letteraria TRANSKRIT, consacrata alla traduzione della letteratura contemporanea. In Francia fonda, con Jacques Darras e Jean-Yves Reuzeau, la rivista INTIUTS DANS LA JUNGLE, il cui il primo numero appare nel giugno 2008. In Italia sono state pubblicate tradotte le seguente opere: Il romanzo Mrs Haroy e la memoria della balena tradotto e curato da Maria Luisa Caldognetto – Empiria 2006 Il libro di poesie La cenere delle parole curato da Maria Luisa Caldognetto e con prefazione di Elio Pecora – Empiria 2011 Il libro di poesie Voglio dire con nota critica di Gabriela Fantato e traduzione di Elio Pecora – La Vita Felice 2012 Il libro di poesie I quattro tremori del giardino – tradotto da Camilla Diez e Francesco Fava e con prefazione di Valerio Magrelli – Ed La vita Felice 2016

  • Paola Casulli, "Sartie, lune e altri bastimenti" - Nota di lettura di Melania Panico

    La vita felice 2017 L’ultimo libro di Paola Casulli è un libro sulla calma del restare. Sartie, lune e altri bastimenti ha come sottotitolo “poesie di isole e amori” e rimanda immediatamente al mare. Tra l’altro il mare è un tema ricorrente nel lavoro dell’autrice. Eppure il mare, che potrebbe far pensare al viaggio, alla partenza, qui è visto in un’ottica di pacatezza e nostalgia. È come se l’autrice fosse pervasa da un senso di riflessione che tuttavia non contempla salvezza: “cosa ci rende nostalgici?/ Distanziati sul nostro promontorio/ ciascuno con i piedi fuori dalla marea/ a sentirci salvi ma opachi”. Ritrovare terra solida sotto i piedi significa anche averne attraversate di correnti, averle contemplate e a volte averle riconosciute come parti integranti della vita. A un certo punto la solidità diventa un giaciglio, attraverso il quale si può godere bene della luce, poiché è una conquista. Tutto il dettato poetico risente di questa negoziazione tra calma e mare: “come siamo noi/ quando diciamo siamo/ uguali a noi stessi?”, della realtà che spesse volte si conferma semplice convinzione per chi invece continuamente chiede, cerca. Se il cuore è un’isola, l’amore è il suo bosco verdeggiante dove camminare a piccoli e accorti passi. Melania Panico Come se in questa stanza dove io ora abito fosse passato il vento. Un po’ di vento con quella inconsistenza che avrebbe avuto noi se noi non ce ne fossimo andati. Un vento poi che, invisibile, è penetrato nella schiena. Mi ha tolto l’abito mi ha rialzato gli attimi, umiliato le soglie. Tocco questa terra ora dove tutto è colore solido. Si inarcano gli alberi e io resto qui a vederli ghigliottinati dalla luce. * Certe volte si dicono bugie perché il cuore è un’isola ammalata di smeraldo – e i tramonti intrusioni bene accette. * Sapevamo di essere nella stessa via a bassa voce come crocifissi appesi al muro quasi dispiaciuti, volgendo lo sguardo altrove. Così mai più visti. Colti da quella strana euforia del dolore. A dirci mille volte preghiere. A farci dei vestiti addosso bianchi fiori. Compiuti nell’imperfetta bellezza delle cose familiari. Un rapimento la vasta luce diamante che pare sangue di un nuovo toccare. Paola Casulli nasce a Ischia ma vive da qualche tempo tra le colline del Monferrato. Poetessa, fotografa, giornalista, pubblica tre raccolte di poesia: Mundus Novus (Ed. Del Leone),Phitekoussai, racconti di un’isola (Ed. Kairos), Di là dagli alberi e per stagioni ombrose (Ed. Kolibris) e due brevi poemetti – MitoGrafie e Lontano da Itaca, quest’ultimo è stato portato a teatro con successo a Verona, con coreografia della stessa Casulli. Organizza eventi culturali in tutta Italia e scrive per varie testate giornalistiche. Incanto Errante è il suo blog di fotografia di reportage e di racconti di viaggio www.incantoerrante.com

  • Il messaggio della poesia: Maurizio Soldini e "La porta del mondo2 (Giuliano Ladolfi editore)

    Maurizio Soldini usa la parola poetica per lanciare un messaggio forte e chiaro, un grido d’aiuto e di speranza insieme.“La porta del mondo”, edita da Giuliano Ladolfi Editore, è infatti un poemetto di grande meditazione socio-esistenziale. Il tema centrale, il così detto protagonista è “il centro commerciale” inteso come limite estremo dell'evoluzione (o involuzione?) socio-economica della nostra collettività: “adesso è tutto concentrato/in uno scatolone/dove il tempo è scandito/da quel televisore/che annuncia le occasioni di giornata/...; il centro commerciale assurge a simbolo della perdizione dei valori umani: ... / e spinge l’avventore alla rinfusa/ad acquistare questa segatura/che fa da bagnasciuga al desiderio./ Tre sono gli eroi simbolici che emergono dai versi del poema: Marcovaldo, Astolfo e Ulisse che rappresentano noi stessi nelle varie fasi storico-evolutive verso la cultura globalizzata e consumistica dei centri commerciali. Il Marcovaldo di Calvino, che segnava il passaggio dalla società rurale a quella cittadina, ora viene preso a simbolo del passaggio a una società dominata, dunque, dai centri commerciali: “Oggi passerebbe delle ore indimenticabili al Centro Commerciale” scrive Soldini e Marcovaldo diviene infatti l’immagine dell’uomo ingenuo che si lascia trasportare dal desiderio verso l’effimero perdendo di vista l’orientamento non solo geografico ma soprattutto del proprio sé; Un Marcovaldo di-sperso e disorientato all’interno dei labirintici centri commerciali allo stesso modo di come eravamo noi quando questi mostri architettonici nacquero 20 anni fa. Ecco dunque che tutti noi diveniamo “Astolfo, esseri che invece non hanno smarrito l’orientamento, ma che, anzi, cercano nei centri commerciali quell’elisir che possa illuderci di riempire le nostre pochezze: ... Astolfi in cerca di elisir/ assennati tra cianfrusaglie/ scatole cartoni buste di plastica/per la spesa carrelli colorati/... Ma è a Ulisse che viene dato il compito di resistere al desiderio, alle tentazioni; il compito di riuscire a tornare e a ritrovare sé stessi: Decidi allora / di andar controcorrente / di uscir da questo mare di incertezze./Vai via da MediaWorld/da quel mondo mediatico/in cui qualcuno/(forse tu stesso) ti aveva gettato./ Il fatto è che Maurizio Soldini non scrive questo poemetto solo per rappresentare la perdizione della condizione umana, ma lo scrive soprattutto per esortarci a uscire da tale condizione, per ritrovare, come ci dice nel proemio, il giusto percorso: Canto l’eroe che nonostante tutto/naviga in questo mare di vergogna/Canto chi cerca la sopravvivenza/il tormento del post-moderno/la sopravvenienza dalla nebbia/ e l’uscita dal foro del non-senso./ Si giunge infatti all’epilogo, un epilogo di speranza, di fiducia nelle risorse intime dell’uomo che trova nell’arte, nella musica, nella poesia la sua ancora di salvezza, il mezzo ed il fine, la zattera magica che consente ad Ulisse di ritornare ad Itaca: Così rinasci e torni ad esser uomo (o donna)/... /... e con la poesia/e la musica tenti di essere più umano/di certo stra-vagato di certo attorcigliato/di certo assonnato e quindi corri corri/ tu corri a perdifiato per ri-tornare a itaca/ nella tua isola pensando già al domani... / Il linguaggio poetico usato da Soldini è totalmente coerente con la tematica affrontata; è un linguaggio che ricerca il potere della comunicazione perché questo poemetto, che manifesta anche rilevanti note di ironia, è in realtà una preghiera, un’invocazione, una supplica, un monito per svegliare l’uomo dal torpore nel quale è caduto e ci pone tutti davanti ad una scelta difficile, ma inevitabile. Cinzia Marulli Da "La porta sul mondo" Parte Prima V Nelle città deserte Nelle periferie di lunari Astolfi in cerca di elisir Assennati tra cianfrusaglie Scatole cartoni buste di plastica Per la spesa carrelli colorati Di réclame passata di mano in mano Di radio in radio Si ergono bastioni caseggiati Come miraggi di desolazione Di deserteficate povertà. ..... IX Ogni giorno comincia l'odissea Che ci porta ad epiche battaglie A viaggi dove qualche maga Circe È bell'e pronta ad accalappiarti E tu dentro un prosciutto o macinato Ti trovi bel salame o polifemo Oppure accolto da una novella dea Attento a non subire Il canto ammaliatore Delle sirene in ondeggianti flutti. E appena arrivi Tu senti già il dolore del ritorno. Parte Seconda XI Poi ti ritrovi nella gettatezza Dell'universo Mediatico e ricerchi I cristalli liquidi perfetti Che aprano finestre sulle scale. Comprendi che la cecità mentale Si avvale anche di protesi efficaci. Parte Quarta XVIII Ma esco ancora e intanto il tempo Sfila veloce, le ore si accavallano Alle ore e chiedo a te: non sia il caso Di uscire dal centro commerciale E ritornare. La nostalgia, Dolore del ritorno, Mi prende e sale dalle gambe. A te dai piedi. Vorrei tornare a casa e mettermi in mutande. Maurizio Soldini è nato nel 1959 a Roma, dove vive e lavora. Medico, filosofo e poeta, insegna Bioetica e svolge l'attività di clinico medico presso la “Sapienza” Università di Roma. Ha all'attivo numerosi interventi, articoli e saggi anche su riviste internazionali. Collabora con Riviste e quotidiani, in particolare ha collaborato come editorialista con il quotidiano Il Messaggero e ha collaborato e tutt'ora collabora con le pagine culturali oltre che come editorialista con il quotidiano Avvenire. Collabora con diversi blog e pagine letterarie come Alla volta di Leucade. Collabora piuttosto assiduamente, ormai da qualche anno, con LaRecherche.it, Rivista Letteraria on-line tra le più affermate e riconosciute. Ha pubblicato diverse monografie tra cui: La bioetica e l’anziano (ISB, 1999), Argomenti di Bioetica (Armando, 1999 e 20022), Bioetica della vita nascente (CIC, 2001), Filosofia e medicina. Per una filosofia pratica della medicina (Armando, 2006), Wittgenstein e il libro blu (Mattioli 1885, 2009), Il linguaggio letterario della bioetica (Libreria Editrice Vaticana, 2012), Hume e la bioetica (Mimesis Edizioni, 2012) e Misericordia e Medicina (Mattioli 1885, 2016). Ha pubblicato le seguenti raccolte di versi: Frammenti di un corpo e di un'anima (Aracne, 2006), In controluce (LietoColle, 2009), Uomo. Poemetto di bioetica (LietoColle, 2010), La porta sul mondo (Giuliano Ladolfi Editore, 2011) e Solo per lei. Effemeridi baciate dal sole (LietoColle, 2013). È presente, inoltre, in diverse antologie poetiche. Numerosi anche suoi interventi di critica letteraria. Ha fatto e fa parte di giurie in concorsi letterari.

  • Lorenzo Poggi legge "La logica delle nuvole" di Marvi del Pozzo (Ed. La vita felice 2020)

    È già nel titolo della raccolta una delle chiavi di lettura della poesia di Marvi del Pozzo. È nel rapporto tra immaginazione e ragione, tra l’immaginifico dell’intuizione e la razionalità che preme che si pone. È come se ogni idea poetica debba passare per un filtro razional-filosofico che ne giustifichi l’uscita e/o resti valido anche per le proprie esperienze umane. “…Con gli occhi, a riva, /abbraccio ciò che vedo, /vivo l’ubriachezza/dell’andare/ma io giungo al di là/dell’orizzonte/e più di quella vela/vado oltre.” Ma Marvi è come una pietra preziosa dalle molte facce. A volte è parca di parole ma apre orizzonti, a volte le parole sono pietre che rotolano nella quotidianità, a volte sono “versi-parola” che infilzano quando è tempo di tirare le somme, a volte sono pennellate impressionistiche come quando “…Hai piedi di maestrale/quello estivo che lustra/cielo e acqua di colore/rasserena il mondo/di frescura./Proprio come fai tu/con un sorriso/di sassolini bianchi e madreperla/quando di corsa al limitar dell’acqua/in silenzio t’abbracci/ all’orizzonte/e ti confondi nelle cose intorno.” Non usa molto le metafore Marvi, va diritta con parole illuminanti al cuore del tema che propone e, nello stesso tempo, è sempre un confessarein pubblico il suo essere, i suoi dubbi e le sue certezze. Tra i temi trattati spesso ritorna il mare con i suoi riflessi dorati, il guizzare della luce, l’immensa libertà che ispira “ …e nella notte nera in mezzo al mare … calma inquieta e ingannevole paura …tu che di cuore vivi e senza norme/ai grandi spazi t’apri e vuoi far tuoi…”. Perché la ragione a volte soggiace all’emozione. L’impertinenza d’una eterna ragazza, l’innata curiosità, l’amore per il bello sono per la poetessa valori assoluti a prescindere dalla loro razionalità. La suddivisione del volume nei vari capitoli è anch’essa la trama in cui si dipana l’ordito d’una vita multicolore, sempre alla ricerca di sé nel mondo che la circonda. Lorenzo Poggi

  • Inner sounds di Claudio Fasoli - Dal suono alla parola e viceversa di Rita Pacilio

    Ho avuto il privilegio di collaborare e ascoltare i suoi magistrali insegnamenti, per questo affermo che Claudio Fasoli è poeta del suono. La sua genialità mi ha sempre incantata. Ascoltando la sua musica, in cui si evocano molteplici mondi esperenziali, troviamo la celebrazione dell’arte della tradizione del jazz, arricchita e superata da schemi/nonschemi densi di impegno, rigore e genialità. I suoni dei suoi sassofoni parlano un lessico armonico e poetico molto colto e raffinato le cui storie, tematiche e ritmiche, omaggiano e stimolano la bellezza del timbro jazz più sofisticato e la grazia della voce interiore. Ecco che ogni pausa e punteggiatura sono artefici di un fraseggio respirato, originale e fortemente delicato, la cui pronuncia, solida e variegata, è ricca di saggezza artistica. Claudio Fasoli muove e spinge il suo talento compositivo verso elaborazioni audaci, attraversate da squarci tecnici e lampi visionari. Produce, attraverso i preziosismi espressivi, sfumature e colori, sempre in perfetto equilibrio tra loro. È poeta, quindi, perché l’intelligente e incessante produzione musicale si accosta agli ascoltatori empaticamente e in modo surreale. Qui l’universalità della sua musica e della sua poesia! La sua composizione, meditata e raffinata, spinge a un modello di contrasto tra perdita e consolazione e racconta un fare universale con grande autenticità. Una tecnica fatta di tempi morbidi con una pronuncia solida e variegata che definisce la sua cifra stilistica. L’approccio è nelle delicate elaborazioni e interpretazioni di audaci armonie intimistiche e universali. Infatti, Claudio Fasoli, Musicista Top jazz duemiladiciotto, sfida l’inquietudine del nostro tempo nell’ingegnoso, struggente e soave ritmo in cui le note parlano l’intimità dell’ispirazione poetica. I preziosismi timbrici dei suoi sax mostrano colori e sfumature intense nell’elegante lirismo armonico. Rita Pacilio Claudio Fasoli: http://www.claudiofasoli.com/home.htm Claudio Fasoli è sassofonista, compositore, docente e collabora con riviste musicali. Nato a Venezia ma milanese d'adozione, si formò musicalmente mediante un lungo apprendistato che però non gli impedì di esibirsi in concerto già durante il periodo universitario, non ancora ventenne. I contatti frequenti avuti in quel periodo soprattutto con i vitalissimi ambienti del jazz bolognese, lo portarono a collaborare anche con musicisti prestigiosi della scena italiana. La popolarità gli giunse quando iniziò a far parte del Quintetto “Perigeo” negli anni 70, assieme a Franco D'Andrea e Giovanni Tommaso: vennero realizzati molti dischi per la RCA, che tuttora sono assai ricercati dai collezionisti, oltreché un numero infinito di performance dal vivo. Nel 1978, scioltosi il gruppo nel quale aveva maturato ulteriore esperienza solistica e compositiva, esibendosi in tutta Europa e Oltreoceano, Fasoli iniziò a dedicarsi come leader alla messa a punto di progetti con piccoli gruppi in un ambito più propriamente jazzistico e acustico, soprattutto trii e quartetti. Ebbe così modo di meglio definire quella che sarebbe successivamente diventata la sua cifra compositiva più riconoscibile, vale a dire quella legata alla modalità complessa. Con questi organici ha presentato la propria musica in innumerevoli concerti e festival , lasciando nutrita e apprezzata documentazione discografica. Dagli anni 80 iniziò a collaborare sempre più assiduamente con musicisti della scena internazionale come Bobo Stenson, Henri Texier, Mick Goodrick, Lee Konitz, Jean-François Jenny Clark, Aldo Romano, Ken Wheeler, Bill Elgart, Manfred Schoof, Michel Pilz, Palle Danielsson, Tony Oxley, Dave Holland etc. Ha suonato, oltre che in Italia, anche in Francia, Svizzera, Jugoslavia, Polonia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Danimarca, Svezia, Finlandia, Irlanda, Inghilterra, Cuba, USA, Turchia,Canada, Messico etc. Va menzionata inoltre la sua partecipazione alla prima edizione della Grande Orchestra Nazionale e al Quintetto di Giorgio Gaslini, quasi contemporaneamente (1989). Ha attivamente partecipato alla Lydian Sound Orchestra (1990), e diretto e animato la European Music Orchestra nelle sue performance dal vivo e in studio di registrazione (1990-92). Ha fatto parte della Manfred Schoof International Band. Aperto ai più vari incontri musicali, Fasoli continua ad approfondire tuttora i vari aspetti del suo approccio compositivo, e nel frattempo studia anche sul piano solistico un linguaggio e un timbro che siano sempre facilmente riconoscibili. Questa disponibilità lo ha portato a collaborare col grande violoncellista classico Mario Brunello, con l'arpista Park Stickney e in diverse situazioni con Bobo Stenson al pianoforte. Ha inoltre recentemente musicato frammenti da “HorÆ CanonicÆ” di W.H.Auden nel progetto “Inner Sound Of Seven Hours” per quartetto con voce. Apprezzato solista anche oltre i nostri confini, collabora con i migliori nomi italiani e d'Oltralpe. Negli anni '80 gli sono stati dedicati alcuni recital presso la TV nazionale. È responsabile dei Corsi di Sax Tenore e Soprano e di Tecniche dell'Improvvisazione presso i Seminari Internazionali di Jazz a Siena, sin dalla fondazione (1978). Ha fondato i Corsi di Saxofono presso la Civica Scuola di Musica Jazz del Comune di Milano. Ha condotto Corsi di Musica Jazz presso Conservatori Statali negli anni 90, oltre a seminari in tutta Italia e all'estero (Europa e USA). Ha condotto stages presso il Conservatoire National Superieur di Parigi. È stato Direttore Artistico del Festival di Padova (2003 - 2010). Il suo nome appare in varie enciclopedie di Musica e di Musica Jazz in Italia e all'Estero.

  • Monica Guerra su "Autobiografia del silenzio - l'orco e la bambina" di Cinzia Marulli

    Edizione La vita felice 2022 Ho ricevuto ieri da Monica Guerra una letteramail che mi ha profondamente toccato. Con il suo permesso la condivido con tutti voi perchè credo che il suo dire sia portante per accompagnare il mio libricino attribuendogli il valore della condivisione. Grazie Monica, grazie infinitamente. Cinzia da Monica Guerra 6 aprile 2022 ore 11.26 Ciao cara Cinzia, il tuo libro è arrivato. Non ho potuto fare a meno di leggerlo subito (nonostante la pila di libri che l'avrebbe preceduto) perché il sottotitolo ha fermato per un attimo il mondo. L'importanza di quello che hai pubblicato (e di tutto il lavoro a monte che ti ha permesso di farlo) supera i confini della poesia, per il suo intento, nudo e puro, per la sua lingua adatta e chiara, per quel dato biografico conclusivo estremamente fortificante e che spinge direttamente il lettore a compiere il salto nel proprio vissuto, a sondarne i fondali e a riemergere con una qualche direzione di pace. Il lettore non sfugge, se il trauma c’è, dinanzi alla tua apertura, così eccezionalmente diretta e tesa alla ricostruzione, si apre un varco. Basta la dedica per capire che questo libro dovrebbe essere letto da tutti: genitori, famigliari, adolescenti, insegnanti. Violati e non. Se non si scoperchiano questi vasi, la malvagità continuerà a scorrere beata all’interno della nostra società, continuerà a perpetuare i suoi danni e ad avvelenare bambini e famiglie intere. Solo la presa di coscienza del nostro possibile grado di corruzione può ristabilire un equilibrio, può determinare un miglioramento. Solo la sensibilità verso certi segnali può aiutare a intraprendere un percorso di risalita, per niente scontato. Alcuni bambini interrotti possiedono una rara forza per ricomporsi, una magica riserva d’Amore che consente loro di trasformare l’orrore di certi traumi in dono, affinché altri possano specchiarsi e tendersi, a loro volta, la mano. Questo tu lo hai fatto. Immensamente grazie.

  • La poetica di Giorgio Caproni di Andrea Mariotti

    C’è una poesia di Giorgio Caproni paradigmatica dalla quale converrà prendere le mosse nel presente scritto, intitolata "Battendo a macchin a": “Mia mano, fatti piuma:/ fatti vela; e leggera/ muovendoti sulla tastiera,/ sii cauta. E bada, prima/ di fermare la rima,/ che stai scrivendo d’una/ che fu viva e fu vera…”; più che sufficiente davvero, tale poesia, grazie a questa sua prima strofe (inclusa nei "Versi livornesi", all’interno dalla raccolta IL SEME DEL PIANGERE, 1959) per comprendere il difficile e felice equilibrio tra spirito aristocratico e vena popolare raggiunto in modo esemplare da Caproni con la suddetta raccolta; per diversi studiosi il frutto più fine della sua storia poetica (e basterà citare al riguardo nomi come quelli di Biancamaria Frabotta e Pier Vincenzo Mengaldo; quest’ultimo prefatore del Meridiano Mondadori dedicato al poeta). Difficile se non impossibile, naturalmente, negare la grazia affilata della poesia di Giorgio Caproni fino all’acme del SEME DEL PIANGERE, dagli esordi genovesi influenzati dalle correnti ermetiche e, in particolare, dalla presenza tutelare e costante di Camillo Sbarbaro. Del resto non andranno dimenticati, del nostro poeta (nato a Livorno nel 1912), i notevoli sonetti “monoblocco” inclusi nel PASSAGGIO D’ENEA (raccolta del 1956) fra i quali spicca per chi scrive "Alba" (1945), con endecasillabi tronchi in uscita non vocalica rafforzati da interiezioni sapienti ( a frantumare la musica consolidata di una forma dorata e “chiusa” della nostra grande tradizione letteraria). In ogni caso anche il peso del PASSAGGIO D’ENEA risulta evidente, nello sviluppo del lavoro poetico del grande Livornese, alludendo alle famose e bellissime "Stanze della funicolare" leggibili in tale raccolta. Sarà bene a questo punto rammentare – volendo giungere al cuore di quanto mi preme sottolineare più avanti su Caproni- la finissima attività di traduttore del poeta, ripensando soprattutto ai suoi Proust, Céline, per tacer d’altri; giacché tale attività ha dischiuso ovviamente al grande Livornese, per sua stessa ammissione, lungo il corso degli anni, “zone” dell’affettività e della cognizione altrimenti insondate. Ma eccoci al punto: i lettori che amano il nostro poeta, e sono in molti, sanno di una innegabile, rilevante cesura fra un “primo” Caproni e un “secondo” Caproni, per così dire; cesura sulla quale sarà necessario insistere qui proprio per tentare di comprendere le ragioni di una voce poetica più che mai viva e incisiva nei tempi attuali. Così dicendo, ecco che non possiamo non individuare nel CONGEDO DEL VIAGGIATORE CERIMONIOSO & ALTRE PROSOPOPEE (1965), la suddetta cesura fra quanto precedentemente pubblicato da Caproni e la grande Trilogia compresa fra gli anni Settanta e Ottanta (IL MURO DELLA TERRA, 1975; IL FRANCO CACCIATORE, 1982; e IL CONTE DI KEVENHŨLLER, 1986). Basterà, in merito, rileggere la chiusa della poesia che dà il titolo alla citata raccolta del 1965 (dedicata all’attore Achille Millo): “Ora che più forte sento/ stridere il freno, vi lascio/ davvero, amici. Addio./ Di questo, sono certo: io/ son giunto alla disperazione/ calma, senza sgomento./ Scendo. Buon proseguimento”. Non posso negare, per quanto mi riguarda, di nutrire un sentimento quasi di devozione per tali versi: essi, infatti, nella loro disarmante semplicità, si fanno profondissima metafora della condizione umana; talché, a questo punto, la voce di Caproni conquista maggiore libertà tematica e formale rispetto alle precedenti e pur splendide prove (il pensiero torna, soprattutto, ai citati "Versi livornesi" del SEME DEL PIANGERE e dedicati ad Anna Picchi, ricamatrice e suonatrice di chitarra, madre del poeta; poeta-violinista, questi, peraltro, diplomato in composizione giovanissimo a Genova). Sia come sia, con il CONGEDO del 1965 (l’anno di un traumatico intervento operatorio per il poeta, che da allora fino alla morte vivrà da “resecato gastrico”, per sua stessa definizione); sia come sia, stavamo dicendo, col CONGEDO, comincia il “viaggio metafisico” di Giorgio Caproni, in tutta evidenza. Il grandissimo cantore di Genova, sua città d’adozione, e della madre- fidanzata del poeta (che intuizione, quella di cantare la giovinezza materna!); cantore nel contempo antico e sottilmente sabotatore come già detto, della nostra grande tradizione metrico-stilistica; questo cantore, insomma, col CONGEDO, scopre le sue carte decisive di “cerimonioso dicitore del nulla”, secondo quanto osservato da Italo Calvino (e non a caso il grande Livornese è stato accostato a Samuel Beckett). Il nostro poeta, austero e riservato, maestro elementare per tutta la vita, parlerà in effetti con la sua voce più alta nel 1975, dando alle stampe IL MURO DELLA TERRA, accolto con grande favore di critica e di pubblico. Con il MURO, infatti, tutto è mirabilmente al suo posto; nel senso che nel libro la densità metafisica di una evidente “ontologia negativa” (sempre per citare Calvino), è una cosa sola con una forma “frantumata e ellittica” (com’è stato osservato da più parti); la cui qualità più corrosiva, forse, consiste nella chiusa delle poesie: senza punti di domanda che possano favorire un rassicurante dialogo con il lettore. Detta qualità di Caproni, è stata individuata felicemente da Carlo Bo; senza stupirsene più di tanto da parte nostra; ché, in tutta evidenza, Carlo Bo ha avvicinato i grandi poeti del Novecento italiano più intensamente di altri; nel senso umano del termine, prima ancora che dal punto di vista strettamente critico. Ma torniamo a Giorgio Caproni. Dopo IL FRANCO CACCIATORE del 1982 -laddove si può percepire un certo “manierismo” rispetto al libro precedente, come osserva a parer mio giustamente Pier Vincenzo Mengaldo in antitesi, nella fattispecie, agli eccessivi entusiasmi di Pietro Citati- eccoci al cospetto dell’ultimo grande libro di Caproni: IL CONTE DI KEVENHŨLLER, del 1986. Con tale raccolta la poesia di Caproni raggiunge una stoica, rarefatta scansione; con alte e attualissime punte di agnizione nell’indicarci l’inquietante ambivalenza fra l’Essere e il Nulla: quasi il poeta si fosse dotato di un misterioso periscopio grazie al quale scrutare la scaturigine tutt’altro che rassicurante di tutti gli ossimori, di tutte le ambiguità (senza dare cioè l’impressione di una pratica letteraria e forzata dei contrari, ossia a posteriori). Così, nel CONTE DI KEVENHŨLLER, il cacciatore è la sua preda; la Bestia, per la cui uccisione il Conte ha promesso bei soldoni alla popolazione, è sfuggevole e parte di noi; e si potrebbe continuare a lungo. Il poeta morì il 22 gennaio 1990; sul comodino (è stato riferito) la pagina della COMMEDIA laddove spiccano i famosi versi: “L’alba vinceva l’ora mattutina/ che fuggia innanzi, sì che di lontano/ conobbi il tremolar de la marina”; Purg. I, 115-7: il giorno successivo, 23 gennaio, il suo funerale, senza la presenza delle autorità (nel quartiere romano di Monteverde, dove abitava); in perfetto stile con la riservatezza e il distacco del grande Livornese, si potrebbe chiosare con amara asciuttezza (non mancarono però Walter Binni, Biancamaria Frabotta e Valerio Magrelli). D’altronde la poesia di Giorgio Caproni costituisce un patrimonio ricchissimo e attuale della mente e del cuore di numerosi lettori; e di chi scrive in modo particolare -mi sia concesso di dire- avendo io abitato dal 1969 al 1980 a trecento metri dal grande Livornese, nella piazza dove sbocca la salita di via Pio Foà (via lungo la quale, dal 2012- in occasione del centenario della nascita di Caproni- è visibile al numero 28 una targa che lo ricorda, assieme ai versi di "Dopo la notizia", dal MURO DELLA TERRA). Mi piace concludere questo scritto citando di Caproni i versi in morte di Pasolini, suo grande amico (intitolati "Dopo aver rifiutato un pubblico commento sulla morte di Pier Paolo Pasolini" , ora inclusi nella raccolta postuma RES AMISSA, 1991, curata da Giorgio Agamben): “Caro Pier Paolo./ Il bene che ci volevamo/ -lo sai- era puro./ E puro è il mio dolore./ Non voglio pubblicizzarlo./ Non voglio, per farmi bello,/ fregiarmi della tua morte/ come d’un fiore all’occhiello.” Così era Giorgio Caproni, maestro elementare fino al 1973: un uomo riservato e fiero che insegnava ai suoi alunni invogliandoli a scrivere versi; non negandosi neppure a scuola la gioia del trenino elettrico. Andrea Mariotti (scritto apparso nel blog andreamariotti.it in data 9/4/15 e successivamente incluso nel numero 61, maggio/agosto 2015, della rivista letteraria I FIORI DEL MALE) Andrea Mariotti è nato a Roma nel 1955. E’ poeta e critico letterario. Studioso di Giacomo Leopardi, al quale ha dedicato il suo lavoro di laurea centrato sul pensiero filosofico del grande Recanatense intorno al tema dell’amore. Ha pubblicato due sillogi poetiche. E’ fino conoscitore della musica classica e della pittura.

  • Intorno a "Transiti nella Poesia" di Anna Maria Vanalesti (Aracne Editrice 2016)

    La suddetta raccolta di saggi critici si offre alla lettura in modo fertile e piacevole lungo il corso di ventisette capitoli, dal Sommo Poeta fino a Giulia Perroni. E se posso aggiungere qualcosa alla notevole prefazione di Donato di Stasi, direi che “la bella critica” della Vanalesti evidenziata dallo studioso si rivela ad un tempo una fonte di mirabile freschezza esegetica: non spiegandomi altrimenti la grazia rigorosa e coinvolgente che mi ha avvolto nel bel mezzo dei percorsi critici del libro. I grandi classici, sappiamo bene, son tali perché presenti e vivi nella nostra vita; ed ecco come, all’altezza del secondo capitolo dedicato all’ultimo canto del PARADISO, Anna Maria Vanalesti sia in grado di farci assaporare l’accortissima “insufficienza della parola poetica” al cospetto della Somma Luce (non senza sottolineare l’acme stilistica raggiunta da Dante in virtù della famosa terzina “così la neve al sol si disigilla”). La finezza esegetica della studiosa non è da meno nel capitolo successivo focalizzato sulla “rimembranza in Petrarca”; tirandola in apparenza per le lunghe, la Vanalesti infatti fa toccare con mano al lettore l’ubbidienza, nel Canzoniere, di elementi contingenti e terreni alla logica ferrea di quel processo d’astrazione lirica che vede in Petrarca un maestro incomparabile e ineludibile. Ma è il capitolo quinto del volume, dedicato all’EPISTOLARIO leopardiano, ad aver suscitato in me il più vivo apprezzamento. “E’ nelle lettere che si forma lo stile della prosa”, ci ricorda giustamente la studiosa in merito al grande Recanatese talvolta disperato in esse ma non patetico (puntualizzazione sacrosanta!)...tuttavia Giacomo un poeta proprio non riesce a non esserlo rileggendo -come felicemente suggerito dalla Vanalesti- un passo della lettera da lui indirizzata alla sorella Paolina (Bologna, 9/12/1825) laddove, raccontandole della visita a colei che in passato aveva servito in casa Leopardi, così si esprime: “Andai, trovai Angelina, che sentendo ch’io era Leopardi, si fece rossa come la Luna quando s’alza”. Qui sono grato alla studiosa non tanto per il riscontro circa l’ineluttabilità del grande Recanatese quale poeta della Luna; quanto piuttosto per avermi ricondotto nell’ipertesto verosimilmente sotteso alle parole leopardiane: “Luna…/ at si virgineum suffuderit ore ruborem” (Virgilio, GEORGICHE, Libro Primo, 427-30). Risulta peraltro ben nota la competenza di Anna Maria Vanalesti riguardo ai testi leopardiani; e veramente lo spirito del Recanatese aleggia lungo lo sviluppo di TRANSITI NELLA POESIA con riferimento al costante richiamo, nel libro, alla poesia come “voce del cuore”: avendo bene in mente la studiosa in tutta evidenza il passo 36 dello Zibaldone in cui Leopardi dice del Monti: “Egli è un poeta veramente dell’orecchio e della immaginazione, del cuore in nessun modo”. A riprova del succitato spirito leopardiano che intride TRANSITI NELLA POESIA, il densissimo, rigoroso studio sul “sistema linguistico” di Elio Pecora; a parte infatti i “prolegomeni” leopardiani presenti in tale studio, c’è in esso una osservazione particolarmente efficace della Vanalesti che occorre qui rammentare, ossia quella relativa alla grande sobrietà di aggettivi nel ductus poetico di Pecora (del tutto correlata alla profonda eticità di questo autore). Quanto detto finora esprime in modo chiarissimo la suindicata fertilità di lettura indotta dal libro in oggetto; e qui lo spazio è particolarmente tiranno nel farmi omettere cenni a diversi capitoli di cospicuo valore critico (penso soprattutto a quelli dedicati a Pascoli, Campana, Pavese e Bertolucci). In ogni caso prima di concludere, mi piacerà ricordare almeno la bellezza del capitolo XVII dedicato al Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini di Mario Luzi; giacché la Vanalesti stupendamente riesce a romanzare con esemplare sorveglianza la lirica trama del grande poeta toscano. E ancora, come tacere del capitolo relativo ad Amelia Rosselli (dal leopardiano titolo “Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso”)? rigorosa si rivela al riguardo l’analisi di una lirica come La passione mi divorò giustamente, vero manifesto delle poetiche altezze toccate dalla Rosselli. Infine, se la poesia è “voce del cuore” per Anna Maria Vanalesti, è altrettanto vero che questa nostra cara e grande studiosa trasfonde tutto il suo amore per essa in modo toccante a pagina 153 del libro dicendo: “qui bisogna mettersi con umiltà in ginocchio davanti alla poesia ed ascoltarne in silenzio i battiti e trattenerne con religioso stupore il respiro”. La lirica alla quale la Vanelesti si riferisce è La casa dei doganieri di Eugenio Montale, di indicibile forza evocativa. Ringrazio veramente di cuore l’autrice di questi TRANSITI pieni di grazia e autorevolezza critica. Andrea Mariotti

  • Alexandra Zambà legge " La logica delle nuvole" di Marvi del Pozzo (Ed. La vita felice 2020)

    Mi trovo tra le mani La logica delle nuvole un libro di poesie di Marvi del Pozzo, edito a giugno 2020. Un libro color avorio curato in tutte le sue parti come sa fare la casa editrice milanese La Vita Felice. La selezione e la cura delle poesie è della poetessa romana Cinzia Marulli. Mariavittoria del Pozzo per gli amici Marvi è una scrittrice e viaggiatrice, nell’animo e nei luoghi, una persona attenta all’altro, consapevole che solo tramite il continuo dialogo si può andare oltre, alla ricerca della verità, alla conoscenza di se stessi e degli altri. Solo con la forza di andare altrove si accetta il nuovo, nel segno della pluralità, consapevole che ogni nostro agire avanza nel futuro. Per dirla con il filosofo Gadamer “Il colloquio possiede una forza trasformatrice. Laddove un colloquio è riuscito, ci è rimasto qualcosa, ed è rimasto in noi qualcosa che ci ha cambiato.” Il libro apre davanti a una poesia isolata che campeggia apparentemente slegata dal resto delle poesie. Si trova dopo il titolo del libro e prima dell’impegnativo titolo della prima suddivisione del libro in sezioni: Filosofia del naturale. Scrivere poesia/ è una forma di preghiera. /Individuale/minuta intelligenza/nel crogiolo dell’anima/del mondo. /Come in vasi comunicanti/non sai più/ chi dà e chi prende. /(…) Il suo è un attraversamento poetico dall’interno verso fuori e viceversa, da un luogo all’altro, in una vera simbiosi culturale con tutto ciò che vive e amplia il suo immaginario. Scrive a pag.82 Svegliami una mattina/senza sapere di me:/gli impegni, le ore sparite/i giorni, cassetti svuotati/ (…) Marvi, è un connubio di gentilezza e determinazione, di logica ferrea e semplicità. Avanza nella vita e nella poesia con atteggiamento meditabondo e analizza tutto in cerca perenne della dimensione umana per dare articolazione di senso alla vita. Tutto questo è trasferito alla sua poesia. Si legge a pg. 80 Vivere parole di poesia/è sempre un ondeggiare/di scialuppa leggera. /E’ bianco l’orizzonte/lucido in lontananza/bianco il respiro/d’ogni trasalimento,/bianco il silenzio/ in questa solitudine d’ovatta./(…) Rivolge il pensiero lungo le visuali che sono tangenti alla superficie terrestre e fino al lontano orizzonte elabora sentimenti affettuosi e leggeri come le nuvole. Da qui penso viene il titolo del suo ultimo libro La logica delle nuvole. Il titolo tiene le poesie come le nuvole tengono insieme l’attività combinatoria degli elementi che le formano, le goccioline d'acqua, gli aghetti di ghiaccio e il vapore d’acqua. Così, le poesie di Marvi si suddividono sapientemente in cinque sezioni: Filosofia del naturale, La folgorazione del frammento, Il nutrimento degli affetti, Vita dei miei silenzi, Fantasticherie. a pg 40 Rovine Romane Brandello disadorno/di mattoni, /scuro di colore/e di vita. /La polvere del mondo/è tua coperta./Soltanto l’occhio/di chi passa/ muto/riscalda l’abbandono/delle tue rughe/nude. pg.65 poesia dedicata alla figlia (…) Ti spio con occhi caldi/e resto zitta/come donna d’Oriente/chiusa al mondo/nel barracano nero dei pensieri. I grandi lettori sanno che ogni libro è un incontro con i fantasmi dell’autore che quando va bene trovano sotto lo zebrino, le chiavi per entrare nell’arena sfuggente della vita. Le poesie di Marvi del Pozzo sembrano attingere dall’arcipelago sentimentale di Svevo, un avvicinamento ai meandri tortuosi della psiche e la poesia diventa lo strumento terapeutico del vivere quotidiano, e la letteratura per la nostra poetessa è concepita come riparo della vita. Perciò le sue poesie comunicano gioia! Io giungo al di là/dell’orizzonte/e più di quella vela/vado oltre/ e a pg.46 Fermare il tempo Senza pensiero/ obliare/ anche me stessa/solo/lasciami essere./Sentirmi respirare./Per un momento/il Tutto. Le sue poesie nel rifiuto di ogni estetismo letterario, evidenziano tra i ricordi famigliari, i legami con le piccole vicende quotidiane, brani di conoscenza e di sentimenti sedimentata. Leggiamo alla pg. 37 Mi appagano/ le corse senza fine/i viaggi senza meta/i desideri/vanificati, /tutti i momenti/in cui si palesano/povertà e/grandezza/dell’umana/creatura./(…) e a pg.35 Primo mattino a Ponza Trema di geranio/ e di erba/l’ora di Ponza/schiusa appena/ alle promesse/ di ieri/ (…) E nella postfazione sotto forma di dialogo epistolare, confessa alla curatrice del libro Cinzia Marulli, anche lei poetessa: La poesia si trasfonde nella vita, si mescola a essa. Il libro lungo settantasei poesie ci fa accomodare in un arazzo mentre si sta tessendo, in alto tra le nuvole! Un osservatorio dello sguardo che cerca di cogliere l’essenza della vita, nella poesia: Scrive alla pg.99 Poeta/ è chi riesce a farsi aria, /quella che avvolge/il senso delle cose,/ trasvolando/ e uscendo dalla storia/da miserie di un se in disfacimento/ (…) Delirio di Formica - Onnipotenza/ è volare con gli occhi/ nello sfumato azzurro/ dell’aria di montagna/e pensare:/ Io posseggo/ è tutto mio. “Noi siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni” fa dire a Romeo Shakespeare, e Marvi scrive dalle nuvole come Elena tesseva dagli spalti la guerra di Troia, come in un sogno, forse perché lei abita il cielo che prende consistenza dalle nuvole. Le sue poesie nascono e crescono tra le nuvole che coprono e scoprono il sole e viaggiando danno senso al cielo e bisogna far in tempo e comprenderle, hic et nunc. Perchè la nuvola è sinonimo di libertà, e l’aria lassù è frizzantina e deliziosa! Scrive all’ultima poesia del libro: (…)Ogni storia/fantasma,/una parvenza/i luoghi nella sera/seminati di silenzio./ L’anima di passaggio/quasi dal corpo escissa/quel silenzio fa suo./Ma, sottofondo a fatica,/l’impressione/di ferri sguainati./Acredine/di ruggine lontana./Turbamento/impedisce a momento di capire/quale la vita vera/e quale il sogno./Ogni risposta adesso/è irrilevante. Marvi è una donna poliedrica. Si dedica oltre alla scrittura ancor di più alla lettura, l’istruzione e l’educazione dei giovani. Insegnante di letteratura italiana e latina, traduce dal francese ed è coordinatrice da dieci anni del gruppo “Tempo di Parole”del Circolo dei Lettori di Torino. Ha pubblicato una decina di libri di poesia, di monologhi teatrali; collabora con la rivista torinese “Amado mio”, cura la rubrica critica letteraria “Letture condivise” sul blog romano “Parola Poesia” Penso che a lei calzerebbero bene i versi del poeta greco Premio Nobel, Odysseas Elytis: “Corre in maniera stupenda il cielo, a giudicare dalle nuvole”.

  • Cristina Polli legge "Autobiografia del silenzio - l'orco e la bambina" di Cinzia Marulli

    Autobiografia del silenzio è un titolo che invita a riflettere. Due nomi che hanno in sé correnti profonde, magma che ribolle, movimento continuo di faglia e di morena e poi stasi, interrogazione, quiete. Arriva il momento del dire, rivelazione e svelamento del vero, di ciò che perennemente abbiamo sottopelle. Il silenzio è il luogo in cui l’evento si è radicato per poi affiorare e manifestarsi nell’unico modo che consente a chi scrive e a chi legge di ricevere la rivoluzione interiore del cambiamento: la poesia. Fiume dai molteplici affluenti, lascia scorrere nelle sue acque ciò che volontariamente si tace, il non detto e, insieme ad esso un altro tacere, è quello che segue l’indicibile, il trauma, è il tempo in cui si deve tacere perché la persona interrotta si ricomponga. La parola, necessaria a individuare il male, a confinarlo in una incarnazione contingente, la parola che rappresenta e mette in scena la ripetibilità fittizia, salvifica, catartica, arriva mano a mano nell’ascolto accogliente che genera fiducia, e nel suo percorso può recare il dono della trasformazione, diventare poesia, ricostituire il sé e il mondo. All’inizio del percorso di lettura è posto il sottotitolo, L’orco e la bambina, come segnale del luogo impervio e scosceso in cui la parola prende le strade multiformi del dire poetico. Dapprima le pagine dei dolci ricordi dell’infanzia, i gesti semplici delle ricorrenze, le piccole attenzioni. A dicembre arrivava sempre il vestitino nuovo comprato nel negozietto vicino Fontana di Trevi: lanetta rossella con il corpetto a nido d’ape e i fiorellini ricamati che ci stavano proprio bene con i calzettoni di pizzo. Il giorno dell’Immacolata si inaugurava tutto per la passeggiata con papà fino alla madonnina di piazza Mignanelli (p. 17) Si torna bambini, ci si rivede piccoli nelle parole dell’infanzia, riconosciuti e amati in una passeggiata che diventa importante perché si fa con papà, perché la festa è sacra, come sacro e puro è il trascorrere del tempo segnato dai rituali della famiglia. La vita della famiglia è cementata dall’affetto e dalle abitudini quotidiane di leggere, commentare, ascoltare: la mamma legge l’Orlando furioso alla bambina che ascolta attenta. La bambina del tempo innocente, bambola negli occhi amorevoli dei genitori, piccola scolara dai grandi occhi scuri che sale emozionata le scale della scuola. Poi la forma cambia e il dire si distilla nell’alambicco del verso: è qui che si concreta la duplicità dolorosa del dentro/ fuori, la coscienza dell’accaduto che corrode, è qui che prende corpo la verità del dolore (p. 22): la confusione nella testa le gambette tremanti in pochi istanti il male il male per sempre. Bambola, quindi, dopo l’evento indicibile, ma con altra connotazione, oggetto usato, voce inascoltata, bambina violata, incredula e confusa, prigioniera di una colpa suscitata da una bieca manipolazione che la impietrisce nella sofferenza, bambina che vive il dramma di non meritare amore. Il mondo dei grandi è incomprensibile, disgustoso: quel giorno le caramelle/ avevano il sapore osceno dello stupro (p. 23). Versi che sono quasi un landay, una voce che torna qui nel buio, accompagnata dalla donna che la bambina è diventata, per cantare dolore e denuncia. E che della bambina rivive gli interrogativi: Cosa fanno i grandi come giochi? L’orco cattivo a volte ha gli occhi azzurri di un principe. (p.25) Ci vuole tempo per concedersi di tornare persona, per perdonare la bambina indifesa col suo macigno di colpa sul cuore, il tempo lungo di un amore coltivato con tenacia. Di questo amore ci fa dono Cinzia Marulli. È un amore che si esprime come creazione e comunicazione, cura sensibile delle creature fragili che l’autrice ha sempre avuto a cuore, ricordiamo la raccolta La casa delle fate, La Vita Felice, 2017, con il quale ci conduce all’interno di una casa di riposo accarezzando la caducità umana nei suoi versi. In Autobiografia del silenzio la poesia di apertura ci rivela un intento programmatico, ci avverte che stiamo attraversando una soglia infernale per entrare in un luogo di dolore e non ci lascia scampo perché, ci avverte, Può avvenire - ed è accaduto -/ che l’orco cattivo esista davvero, ma non ci lascia indifesi davanti al mostro perché ha imparato ad amare oltre il dolore: ma per poterne parlare/ ha dovuto perdonare// ha dovuto imparare ad amare. Il dato biografico è trasceso nella guida amorevole di colei che ci guida, come un Virgilio che mostra e prende per mano per condurre ad altri luoghi più degni dell’umano. Roma, 10 giugno 2022 Cristina Polli

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