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- "Ogni respiro un mondo" (La vita felice 2023) di Tiziana Colusso letto da Michele Arcangelo Firinu
Una piccola silloge - 66 pagine, ivi compresa una breve nota dell’autrice – eppure un libro importante, direi indispensabile per i nostri flebili giorni, perché apre mondi poetici di consapevolezza cognitiva ed etica ad ogni respiro di verso. Il libro è articolato in 5 sezioni: Ogni respiro un mondo, Pastora di parole, Fons SAPIENTIAE, Alfabeti vegetali e A nuoto nel vuoto (e sulfureo atterraggio). Le poesie, tutte brevi e brevissime, sono collegate le une alle altre, tutte prive di titoli e numerate con numeri romani dato che Tiziana Colusso le concepisce come movimenti musicali. La misura degli endecasillabi prevale, intonata su lingua piana, con qualche guizzo, in alcuni movimenti, di inserti di lingue straniere: francese, spagnolo, lingue africane. Tiziana Colusso affronta tante complessità del vivere e le risolve in leggerezza, le vaporizza in poesia. Il libro ha raccolto meritatamente recensioni e premi. La primissima impressione di trovarsi di fronte a una poesia sapienziale si dissolve rapidamente. Anche ad apertura di pagine a caso ci si trova davanti a poesie non sapienziali, ma sapienti, così sapide e cariche di senso da portare il lettore a vertiginose altitudini di conoscenza e consapevolezza. Poesie che orientano a capire l’essenza delle cose. La prima conferma di ciò la troviamo nella poesia I della II sezione, Pastora di parole, laddove l’autrice canta di essere giunta per vie molto traverse, ormai oltre / ogni dottrina e affiliazione (p. 15). In nota (p. 64) a quella sezione Tiziana Colusso precisa che durante una passeggiata sul Monte Amiata, giungendo al Tempio della Grande Contemplazione non ebbe “alcuno slancio a entrare “, ma preferì “camminare sulla soglia tra tempio e montagna, tra bandiere e vento”, ciò che le sembrò “la traccia di un destino di frontiera non geografica ma filosofica.” Infatti Colusso matura la consapevolezza che le tempeste guariscono strappando -/ sui bordi tra bandiere e vento sto/ volentieri, lì trascorre la vita (p. 15). Così apprendiamo che Il respiro unisce i continenti (p. 10). Oppure che gli incubi sono seduti sul diaframma (p. 10). L’occhio volge attorno lo sguardo, osserva e conosce che il respiro delle volpi volanti / - rari pipistrelli migratori - / coincide con il battito delle ali / ogni apertura d’ali un respiro / ogni respiro un mondo (p. 7). O anche che al crocevia dell’evoluzione / sta la salamandra, signora dell’acqua / del fuoco e della terra, compagna / di filosofi e alchimisti. Respira / il sole da ogni poro aperto / il mondo le scorre tra le cellule / eternamente (p. 7). Le due ultime citazioni vengono dalla sezione eponima, come per invitarci, già ad apertura di libro, a essere natura, nel respiro e nel ritmo degli endecasillabi, aspirando il sole. Il nucleo generatore della poesia di Tiziana Colusso a mio parere si coglie nell’invito a imparare dalla salamandra a respirare da ogni poro aperto. Per tutto il libro Tiziana Colusso opera una sorta di osmosi tra sé e gli elementi della natura, l’aria e l’acqua soprattutto, giungendo, nella sezione Alfabeti vegetali a inferire l’io nell’albero di ulivo, nella spiga e nell’elemento acquoreo. Questi elementi, personificati, parlano in prima persona singolare. Tale strategia stilistica inclina la poeta - e invita i lettori che leggono quelle poesie e pronunciano quelle parole - alla compenetrazione, all’identificazione e alla fusionalità con la natura. Strumenti retorici di questa filosofia sono le analogie, spesso disposte a reti, le personificazioni utilizzate frequentemente, le allitterazioni, le rime, le assonanze, le sinestesie, col risultato del superamento filosofico dei confini tra le specie viventi e di diversi dualismi: corpo-mente, respiro-mondo… Talvolta le analogie sono allineate in parallelo: nell’aere il sole cade e risorge l’aria nel corpo entra ed esce (Sez. I, poesia III, p. 8). Oppure assistiamo a uno scambio di parti: la poeta, pastora di parole (p. 16), se ne va brucando l’aria [...] tra rocce e torrenti (p. 16), dove il “brucando” trasforma con immediatezza la pastora nell’animale al pascolo con l’ardita analogia pascolo-scrittura. La scrittura - ci dice la poeta - è pascolo: le parole sono allevate con cura (p.16) in transumanza testarda (p. 16), che porta lontano pastora e gregge dai clamori umani (p. 16). Qui avviene anche la contrapposizione con i “clamori urbani/ sfiati motorizzati. La poesia-movimento IX di O.R.U.M. rende il respiro elemento unificatore del pianeta: “il respiro unisce i continenti/ non esistono acque territoriali/ per la placenta salina del pianeta” (p.10). Qui una dissolvenza incrociata repentina sfuma l’aria in acqua, che altrettanto repentinamente mediante sineddoche viene personificata in madre. Il II verso della terzina toglie di mezzo la Storia umana, l’artificiosa divisione di mari e oceani in acque territoriali. Tiziana Colusso s’identifica ancora con l’acqua quando con piglio autoironico trova in sé l’imperfezione e avverte: “da acqua ribollente ad acqua cheta/ non vi fidate: sotto la rinuncia/ ribolle un indomato ringhio” (due endecasillibi seguiti da novenario, III, Pastora di parole, p. 21). Tiziana Colusso rovescia l’affermazione di Montale che non credeva al tempo: ma forse è il tempo che non crede in noi (p. 23) e sceglie il qui e ora / d’un oltretempo senza macchie (p.23). Oppure cerca di contrastare l’impermanenza (p. 27) scoprendo che sostenibile è un tempo largo / largamente inutile (p. 28) che permette di sbrogliare / matasse di domande appassite (p. 28) quando si sosta proprio ora / proprio qui – a respirare (p. 28); allora il tempo è riavvolgibile / come un vecchio tape (p. 28) e lo ritrovi come tempo elastico / il tempo perduto e mai del tutto perso (p. 28). Il tempo di Colusso s’increspa/ in cortocircuiti larghi, in gibigianne (p.39). Oppure la poeta si ritrova in una sorta di sospensione dello spaziotempo in una dimensione né qui né lì/ flottante quando si ritrova travolta/ da ventenni in fuga ellittica/ come le rondini e lei ben oltre il mezzo/ del cammino fluttua per l’appunto tra l’immaginata/ beata gioventù e il poi mai più (p. 40). Nell’ultima poesia, in chiusura di libro Colusso si affida alla rassegnazione/ commossa alla consistenza del tempo (p. 61). Il percorso di vita che Tiziana Colusso ha attraversato la convince a starsene a latere da fedi, partiti e schieramenti sui bordi tra bandiere e vento sto/ volentieri, lì trascorre la vita (p. 15). Volgendo lo sguardo indietro al suo impegno politico giovanile, Tiziana Colusso si dissocia dalle ore aspre/ di troppe opinioni/ e assai scarse verità; una presa di distanza ribadita quando la poeta si ripensa spiaggiata tra mozioni/ sabbiose come un delfino stordito (pp. 18-19). Tuttavia, la maturità non vede Colusso arresa: la creatura che non s’arrende scava/ nicchie, non trincee (p.30). La maturità reca consapevolezze: quella dell’impermanenza, per esempio, che – personificata (p.27) - s’inabissa in labirinti/ liquidi, ricamando il vuoto e consegna alla poesia di Tiziana Colusso la bella massima morale: beato chi sa ondeggiare lieve/ nella sottile strategia del giunco (ibid.). La maturità personale della Colusso testimoniata in questo libro ha alla base tecniche meditative lungamente apprese e praticate dalla poeta, come quella zen del meditare camminando e respirando. Di fronte al maestro Thích Nhâ’t Hanh, che guida una lezione di meditazione respirata, la poeta sembra arrendersi: non si può/ abitare la pace altrui (p.33), ma la sconfitta dichiarata consegna alla poesia un bel novenario, un’altra massima di saggezza. Tiziana Colusso trova il dolore esistenziale nel correlativo oggettivo del canto della cinciarella (movimento III, Sez. Pastora di parole, p. 17): il canto visibile della cinciarella sul pentagramma cristallino del gelo bellezza distillata dal dolore pungolo di aghi ghiacciati sulla solitudine del ramo come sempre il canto visibile è pianto che non si vede trasmutato Il movimento si apre con la sinestesia (la sonorità del canto è demandata alla vista) e nei versi successivi il delicato canto di quel delizioso e colorato uccello è evocato espressivamente e con insistenza mediante contrappunti ossimorici: pentagramma-gelo, bellezza-dolore; il quarto verso brandisce gli aguzzi strumenti di tortura; il quinto opera uno scambio, la solitudine della cinciarella con immediatezza di spostamento è attribuita al ramo (reificazione lignea della solitudine dell’uccellina e personificazione del ramo), il penultimo verso ribadisce la sinestesia del primo; l’ultimo verso chiude con la citazione ungarettiana, ma il trasmutato rovescia l’invisibilità di quel pianto interiore e lo riporta alla visualizzazione del verso iniziale. Il canto della cinciarella è metafora del poetare di Tiziana Colusso. I correlativi oggettivi: il canto dell’uccellina, i cristalli di gelo, i pungoli di aghi ghiacciati - pentagrammi del canto stesso e la desolata solitudine del ramo esprimono e visualizzano l’intimo dolore della Colusso. Di riflessione in riflessione Tiziana Colusso giunge a soffermarsi sul fine vita che è il finis terrae/ dove ognuno è esploratore/ estremo (p. 34) e qui si sfaldano le parole/ come rocce erose dai venti e dal salino e nel mistero la poeta trova all’orizzonte silenzi/ densi come nubi (p. 35). e viene aprile, crudele di vento - canta Tiziana Colusso - e il bellissimo endecasillabo rinforzato dalla personificazione, apre a tramonti marini, a gabbiani, mentre non trova ancora rondini in volo e la mente, per contrappunto, si volge alle guerre: le battaglie ribollono di nuovo […] follia crescente/ a ogni latitudine, barocco/ tracollo della specie umana (p. 41). Il rifiuto della guerra torna nel canto III di Alfabeti vegetali. Qui è l’acqua che scorrendo personificata racconta in sintetica e rapida successione torrentizia la storia dell’evoluzione delle specie quando voi viventi scalpitavate/ indecisi se rimanere anfibi/ o abbandonare la matrice acquatica/ con nuove zampe e ali e unghie/ e poi ben presto/ pietre, lance, giavellotti/ già vogliosi di guerra/ lungo gli argini dei fiumi (p. 50); e dentro quegli argini l’acqua si contrappone, pacifica e lustrale, agli umani: dove scorrevo pacifica, mescolata/ al vostro sangue guerriero, sangue matricida/ che risciacquava in me ogni lordura. Nel movimento II - Alf. Veg. pp. 47-48 - un’altra personificazione fa cantare la spiga matura, che racconta i campi, la maturazione del frumento, la danza delle spighe al sole, poi la falciatura, la trebbiatura e il viaggio dei sacchi di grano fino ai cupi silos/ capannoni in squallide lande/ sovrastati dal rombo di bombe [...] i sacchi che dovevano correre/ verso i forni del mondo/ si stanno bucando, e noi marciamo/ della marcia sragione delle guerre. L’utilizzo di contrappunti tematici e stilistici è frequente in questo libro. Tiziana Colusso fa uso con naturalezza di tali procedure. Mi limito a un paio di esempi tornando alle ultime due poesie osservate sopra. Nel canto II di Alfabeti vegetali la spiga, il chicco di frumento, i sacchi di grano, il pane sono contrapposti alla furia distruttrice delle bombe. Nel canto III di Alfabeti vegetali l’acqua, elemento primordiale, fa da contrappunto a tutto: parla, ascolta e accoglie – nel mio grembo largo – dice – voci, leggende, remi battenti, panni intrisi di sudore quotidiano (p. 49), liquami, rottami di barche di migranti e l’intera storia del mondo, quella geologica, quella biologica dell’evoluzione delle specie viventi e dell’uomo, economica e politica, fino a prevedere amaramente la definitiva conclusione dell’avventura umana, dato che anche il pianeta è sfinito/ dal vostro sangue guerriero/ che vi rende avidi e folli/ votati all’estinzione [...], l’acqua termina il suo canto con la previsione funesta: scorrendo per l’ultima volta/ vi avvolgerò in moto a ritroso/ nel mio utero liquido, fresco/ sudario di lacrime salate (p. 50). Tutto il libro ci guida a immergerci nella natura, a riconoscerci in essa, a rispettarne la saggezza e la bellezza che suggeriscono un nuovo modo d’essere e d’agire per costruire un mondo nuovo. La poesia XI della I sezione (p. 25) è una ragnatela musicale di assonanze, rime, allitterazioni, ripetizioni, metafore e corrispondenze, una danza dell’intelletto tra le parole – per utilizzare l’espressione teorica di Ezra Pound - e potrebbe leggersi come un manifesto e un invito a un nuovo modo d’intendere la vita. Annoto i rimandi: nodo-modo-mondo, torto-ritorto-filo del divenire-télo(s)-tessuto, senz’altro-altro, nuovo torto-altro modo-nuovo mondo, consonanze-alleanze mute. Anche la spaziatura è al servizio del reticolato dei rimandi. Ricopiando per intero la poesia per non rovinarla con lo smontaggio. Ancora un nodo un nuovo torto sul filo ritorto del divenire: ci vuole senz’altro un altro modo un nuovo mondo, un télos tessuto di consonanze alleanze mute L’ultima sezione del libro, A nuoto nel vuoto (e sulfureo atterraggio) - come avverte Tiziana Colusso in nota - unisce i quattro elementi: acqua (nuoto), aria (vuoto), fuoco (zolfo) terra (atterraggio). Qui, nel I movimento (p.57), vengono intrecciate poeticamente conoscenze scientifiche, come la deriva del cosmo che allarga gli spazi interstellari (si rarefà l’universo/ come una torta troppo lievitata/ le molecole si sfuggono, si slargano/ esponenziali, si fa spazio al respiro/ nel vuoto irriducibile che spartisce/ gli elettroni, si dissolve il legame/ chimico che affattura gli elementi), la consapevolezza della morte (salubre cerimonia degli addii/ dal saturo di pensieri valigie), della fine dell’umanità e della terra stessa, adombrata nella rarefazione stessa dell’universo e sensazioni legate a ricordi di viaggi (memorie moresche dell’Alhambra – una fontana parigina – movimento III, p. 58 – antipodi africani nel IV movimento). Nel V movimento troviamo la poesia e il poetare, aereo, con splendidi versi: accade la poesia per pieni e vuoti/ in bilico tra tecnica e magia (p.59). Il fuoco è nel movimento VI: la vulva del vulcano non m’accoglie (p. 60). Il VII movimento chiude il libro con un brivido che scuote/ il respiro della sera (p.61). Concludo con un omaggio poetico, una quartina del poeta russo Guennadi Aïgui - trovato in traduzione francese dalla quale traduco – Una poesia che trovo in sintonia con la poesia di Tiziana Colusso: Et l’homme va par la campagne E l’uomo va per la campagna il est la Voix et la Respiration ed è la Voce e il Respiro parmi les arbres, comme s’ils attendaient tra gli alberi, come se essi attendessero d’être nommés pour la première fois. di ricevere per la prima volta i loro nomi. Guennadi Aïgui, Toujours plus autrement sur terre - Traduit du russe par Clara Calvet et Christian Lafont, Atelier de l’agneau transfert. – Traduzione in italiano dal francese di MAF.
- Taccuino dell'Urlo di Sonia Caporossi letto da Francesco Costa
Poesie selezionate: p. 41, p. 52, p. 61. Il libro – Taccuino dell'urlo (2020, Marco Saya Edizioni, ISBN 978-88-98243-90-7, pp. 66) è il penultimo lavoro di Sonia Caporossi - docente, musicista (con gli stupendi Void Generator), autrice di prosa e poesia troppo prolifica per essere presentata in poche righe, filosofa, saggista e certamente tante altre cose. Di lei si trova molto in rete e nelle librerie, recensioni e note critiche sul libro in oggetto si sprecano, tanto che mi è difficile avanzare la pretesa di dire qualche cosa di nuovo anziché limitarmi a tesserne le lodi. Difficile anche interpretarne il contenuto, considerato che l'autrice stessa ci mette in mano la chiave di lettura negli Indizi (p.3). Provo allora a gettare la chiave nel tombino metaforico di me stesso e vedere cosa salta fuori. Il Taccuino è complesso da inquadrare: si presenta come una via di mezzo tra un poema epico sul distacco e un frammentario flusso di coscienza, cambia spesso nella forma, gioca con la lingua, con i versi, con la formattazione del testo e la punteggiatura. Il casus è quello di un amore finito, di un lui che riflette e rimaneggia i ricordi confusi, sognanti e dolorosi di ciò che è stato e facendolo – attraverso una sorta di accidentato percorso psicanalitico che ricorda il disordine simbolico lacaniano – tenta di superare il trauma seppellendolo in sé stesso. Lei, l'altra protagonista, nelle parole stesse di Sonia, “interviene ogni tanto tra virgolette, come un fantasma che parla dall'altrove […] alla fine non significa più niente, se il niente è l’illusione autoindotta, se il niente è l’errore comune che non si compie mai se non in due, e viene sciolto solo quando si esce dal sogno e dall’inganno.” L'incedere ricorda l'indecifrabile Logica del Senso di Deleuze, viaggio periglioso su percorso accidentato nei labirinti della memoria, confusa, della rottura, del distacco, nelle distorsioni dell'assenza, un furioso rimestare nelle ferite aperte di uno spezzarsi. Il tutto è infarcito di riferimenti complessi, che non vanno neanche per forza sbrogliati, esaltanti giochi di rimandi, citazioni ed immagini che riecheggiano dentro mentre si legge, quasi come un'eco che rimbalza contro il petto e rende ancora più allucinata e salterellante una poetica che, spezzettata e aggressiva, s'impone sulla linearità narrativa. I corsivi, gli stampatelli, le rotture e ricomposizioni grafiche dei versi, le forme mutevoli, avvicinano il linguaggio a quello allucinato del ricordo o del sogno. La complessità stilistica è tenuta assieme da una tematica chiara, lapidaria, diretta: quella, già anticipata, del distacco. Mi azzardo a supporre che la fine di un rapporto amoroso sia al contempo il senso del testo e un pretesto. Mi azzardo a supporre d'essere di fronte ad una riflessione sulla rottura nel suo senso più profondo, sulla spirale emotiva imposta dal vanificarsi di qualcosa che sarebbe potuto essere e non è stato sulla complessità del percorso di ricostruzione del sé necessario per riprendersi e riconoscersi dopo un trauma. Il libro potrebbe tranquillamente parlare dell'abbandono di una dipendenza, del superamento di un lutto, della rinuncia ad un sogno – come tutti i sogni – irrealizzabile. E ne parlerebbe in modo straordinariamente efficace, tanto da essere riuscito, con il transfert sulla mia esperienza personale, a lasciarmi profondamente scosso, a squarciare il velo d'inebetimento e svogliatezza sentimentale di quest'anno a rallentatore che stiamo vivendo, circondati da un mondo che si disfa troppo velocemente per essere metabolizzato, da lutti insuperati, dal torpore di una vita messa in pausa. Ho sofferto il male dei vent'anni leggendolo, il male dei distacchi, delle disillusioni, della furia (auto)distruttrice dei ricordi. Per dirla come mangio, se ho tremato nonostante gli arzigogoli e le sperimentazioni della parola, strumenti che di solito mi distraggono dal nocciolo di un'opera e spesso mi respingono, c'è qualcosa di veramente notevole che s'annida tra le righe. Non saprei nemmeno indicare cosa, ma c'è e pulsa fortissimo, fino a spaccare il testo – nella sua triplice dimensione linguistica, formale e narrativa – per prendermi a pugni in faccia. Istruzioni per l'uso – siamo all'entrata di un labirinto. Servono concentrazione, lucidità e pazienza. Siamo all'inizio di un campo minato. Servono mano ferma e occhio vigile. Siamo di fronte alla porta dello psicanalista. Servono nervi saldi e la voglia di spogliarsi di fronte ad una sconosciuta che ci mette a nudo con immagini turbolente e parole come lame che strappano la scorza che ci costruiamo addosso per sopravvivere ai passati, molteplici, che ci premono addosso come un amore finito o le labbra del fantasma che lo incarna. Dietro (dentro) lui, lei, il distacco, la perdita, ci sono i tuoi spettri che bussano alla pagina. Il libro si legge lentamente, con attenzione. L'attenzione che serve per decifrare un lavoro difficile e quella necessaria a superare un ponte traballante dove il cordame, le assi e l'abisso siamo noi. Il commento – come nella psicanalisi, il percorso è l'arrivo e l'analisi è indifferentemente mezzo, metodo e risultato. Il Taccuino è difficile da maneggiare, l'urlo è assordante e terribile. L'urlo è liberatorio e necessario. L'urlo è al contempo un atto di coraggio e di abbandono, di rivalsa e di resa. Il Taccuino è anche un bellissimo libro, duro, difficile. Affrontatelo.
- "L'erranza" (Pequod 2023) di Anita Piscazzi letto da Mariella De Santis
Libro di rara compostezza questo ultimo di Anita Piscazzi. Un libro pervaso di energie sottili, vibratili che riduce peso al corpo verbale. Il gesto scritturale è scultoreo, sottrae spazio alla materia per lasciar emergere la forma potenziale che racchiude. Non visibile a chiunque guardi il blocco di marmo e a volte solo intuita dallo stesso artefice. Così Anita Piscazzi, ad ogni parola non aggiunge ma toglie peso all’eccesso. È un libro di ascolto, ha rarefatte tessiture musicali che ricordano alcune partiture di Brahms quando la composizione articolando note in dissolvenza annuncia quello che può succedere ma senza dichiararlo e si sollevano suoni dai suoni. L’erranza che dà il titolo al volume è quella del cercatore di senso che sa di non potersi fermare neanche di fronte ad un atto di fede profonda che, nel caso dell’Autrice, è fiducia nella certezza di una rifondazione possibile dell’umano a partire dalla radice del sacro. Non ci si può fermare ma si può raggiungere il momento perfetto dell’immobilità dentro il fluire incessante: “Ma tutto ci dà l’universo, /sa ritrovarci dopo mille anni, /là dove ci siamo persi e amati.” Le poesie di questo libro sono un affidavit e la poeta garantisce attraverso i propri sensi la possibilità di accedere a dimensioni di esistenza in cui lampeggia il senso vero e ultimo dell’avere forma umana tra gli umani: “Le cellule nel sangue si muovono lentamente, //tutto l’universo resta nello spazio a catturare/i corpi sonori del silenzio, //in un altro cielo di lampo, in un altro luogo di salvezza.” La postura è dialogante ma non colloquiale. Il tono del dire rimane alto e pudico al contempo, rifugge dalla superbia dell’eletto e si inchina al sussurro della costanza che chiede la poesia. La poeta assume su di sé il compito del gesto di accesso alla compassione per il poco che sappiamo e al molto che percepiamo trasformandolo in parola: “Dammi l’azzurro della tua veste/ per vincere le altezze, riprendere la riva, / perché oggi ho toccato l’invisibile.” Frequenti appaiono le albe ad indicare un esordio incessante e quindi un alimento di speranza e il senso più chiamato è quello della vista che è visione dentro cui può formarsi lo sguardo:” Indovino, che rovesci il tempo/e vedi prima del prima, // ti agghiaccerai se vivo nei rovi/o sotto la sabbia, se resterò cieca// per non aver visto il roseto nella mano della sposa//e per essermi nascosta/nella punta della spina.” Il male esiste quanto il bene ma non è la lotta la misura della contesa piuttosto una danza in cui ogni passo apre spiragli alla luce che dissolve il buio. Forse neanche la morte fermerà l’erranza, inevitabile il richiamo alla mente dei versi del Cantico dei cantici (8:6-7): Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore. Un Cantico laico è questo libro dedicato a chi resiste con dolcezza ai richiami della vanità, alle lusinghe della materialità, all’illusione che il rumore possa essere un cuscino buono a generare sogni di trasformazione. Nell’incedere di gennaio 2024 Mariella De Santis
- "Ogni respiro un mondo" di Tiziana Colusso letto da Mariella De Santis (La Vita Felice 2022)
Libro denso questo di Tiziana Colusso anzi volume in cui l’autrice condensa ritmi e istanze in cerca di una sorta di liberazione. Segnalo in copertina la riproduzione di un’opera della compianta Nina Maroccolo scomparsa quest’anno. Mi sembra una sorta di segno di continuità in questa ricreazione del mondo attraverso il respiro che tutti ci tiene uniti in vita e poiché vivi in grado di chiamare a esistenza coloro che sono scomparsi nei corpi. Non è un libro immediato. Leggendo i testi in maniera rapsodica si può avere un’impressione di cedevolezza, fluidità che una lettura continuativa, attenta sconfessa. Intanto c’è una scelta costitutiva, di cui Tiziana Colusso cerca di dare ragione in una nota in clausola al volume, che dice di come abbia avuto desiderio di connettere temi ispiranti con sedimentazioni di una lunga vita di letture, esperienze, percorsi di coscienza e conoscenza spesso contrastanti, addirittura misteriosi. In questo panorama viene introdotta la presenza del respiro quale pratica rigenerativa e concreta manifestazione della possibilità di pensare la propria esistenza e al contempo osservare quanto ci tiene uniti, vicini pur dentro aspre contraddizioni. Non è un libro a tesi o dimostrativo, anzi la poesia diventa uno spazio nel quale far muovere le contraddizioni e guardarle dalla minima e massima distanza possibile: “ la creatura che non s’arrende gioca/ il gioco della lingua, ma ha una parola/ sola, in equilibrio sta in vagoni affollati/a volte piombati, ma non dispera- e dura” ( pag. 30). In questi versi che ho citato appare evidente la condensazione a cui mi sono riferita in apertura, qui c’è Storia, poetica, tenerezza di finitezza e ardore non domato verso la speranza per un futuro la cui fondazione è ancora la parola e quindi respiro che ad ogni pronuncia si accompagna. La ricerca spirituale non è occultata ma nel farne elemento di poesia viene alleggerita da ogni intento edificante per diventare traccia di esplorazione possibile ai confini di quello che è a noi accessibile: “Respire! Tu es vivant – bisbigliava/ il maestro Thìch Nhãt Hanh/ discreto al Village des Pruniers/ ho provato a restare lì tra il viola/ dei vigneti e dei cuscini del tempio/ ma non ha funzionato, non si può/ abitare la pace altrui.”(pag.33). Questa poesia continua poi con un exitu possibile tra ricerca e libertà dal bisogno e questo è un altro degli elementi che percorre tutto il libro. Esserci ( il Dasein di heideggeriana memoria che oggi si preferisce tradurre con ad-essere), essere in, essere con sino a toccare il fuoco del non essere col rischio di scoprirsi novelli Icaro: “ pesa lo shock sulfureo sulle ali/stringe alla gravità, il sogno/ mi trasmigrava tra i continenti,/ore di tante trasvolate/ solo un affanno m’avanza/[…]”. Eppure tutto respira, il mondo vegetale quanto l’animale e l’apparente inorganico. Tutto respira e tutto restituisce un mondo. Qui c’è chiaramente inevitabile una connessione con l’atto poetico che deve restituire al mondo qualcosa che già gli appartiene ma in forma rigenerata dal passaggio nel logos. È mia opinione che il testo poetico sia un campo energetico in cui forze avverse, contrastanti o propizie agiscono. È un campo fisico fatto di equilibri e movimenti, il poeta tenta di orientare le forze interne e di osservarle, comprendere se sono quelle che riflettono la propria volontà creativa, quando non si percepisce questo siamo di fronte a buone- si spera- scritture diversamente, come per questo recente libro di Tiziana Colusso, siamo parte di un movimento che ci trasforma, anche malgrado noi. Nella rovente estate del 2023 Mariella De Santis
- "Silenzio, soglia d'acqua"di Loriana d'Ari letto da Francesca Innocenzi (Arcipelago Itaca 2021)
Silenzio, soglia d’acqua è il titolo in cui Loriana d’Ari condensa alcuni tratti salienti dell’intera silloge: in primis l’elemento acqua, che, proposto nella figura retorica dell’analogia, apre a suggestioni multiformi e ad una visione del reale densa di simbolismi e di letture su più piani; secondariamente – non per ordine di importanza – il suono, che si concretizza nella suggestione dell’allitterazione, e che anticipa nel contempo una sua centralità a livello semantico, di cui si dirà in seguito. Si potrebbe affermare che lo stato liquido sussista, da un lato, in un paesaggio marino che non viene descritto, ma evocato, uno scenario in cui la «soglia d’acqua» è la riva su cui l’orecchio riposa e dove lo sguardo arriva a fondersi con l’oggetto contemplato; dall’altro lato, l’acqua si fa fluido corporeo, sangue, emorragia, scaturigine di ferita. Né manca l’antitesi acqua/deserto nei corrispettivi di quest’ultimo: aridità, prosciugamento, sete. E si intravede perfino l’elemento fuoco, in intrinseca dissonanza con la natura acquatica, attraverso gli effetti da esso provocati, le ustioni. Su questa dimensione fisica, corporale, occorre soffermarsi. Il primo verso della raccolta, «canto il silenzio d’edera preghiera», sembra dichiararne programmaticamente una delle dimensioni fondamentali nella voce come emissione vocale, alogica, colta in quanto esperienza primariamente fisica, o ritualizzata sotto forma di preghiera. La voce si fa segno di presenza, persistenza del corpo che conserva una sua verità, al di qua e oltre i miraggi della parola. Così nei versi seguenti, che trovo particolarmente suggestivi: «sei andata via, ma la voce resiste/e propaga infinita oltre la fonte/ tutto il mistero della cosa viva». Nei vari componimenti colpisce la ricorrenza di termini riconducibili all’immagine di un moto repentino, anticamera del precipizio, e caratterizzati da suoni duri e stridenti: salto, corsa, schianto, strapiombo, inciampo, caduta. È possibile che la poesia stessa si configuri come uno sporgersi sullo strapiombo, come apertura sul ‘troppo vero’, spazio di disintegrazione dove i sottili fili che costituiscono la materia vengono dissolti. Il corpo umano, le sue sezioni anatomiche, non diversamente dal corpo degli oggetti, sono preda di una corrosione perturbante, che dà origine a visioni intrise di labilità, sull’orlo del disfacimento. Questa polarità corporeità-disintegrazione rimanda, in un aggancio metaforico inevitabile, alla vita e alla morte. Vi sono luoghi del corpo che detengono il privilegio di custodirne l’intreccio orrendo e sacro; a ciò sono addetti, soprattutto, gli orifizi. Ne deriva il ripudio di segni salvifici e di rassicuranti certezze; la stessa maternità si rivela un tripudio di riti dionisiaci e morte: «ha danzato tutta la notte, le anche slogate./ la madre non recede: sgrana feti in/ preghiera, li sfila/ via dalla bocca uno a uno». Altrove, la morte viene osservata da vicino, sul confine che la separa dalla vita. Da lì si coglie la grazia con cui il vivente espelle ineluttabilmente da sé quanto deve essere l’asciato andare: «il ramo sussulta, stacca e plana la foglia/ appena un dorato fruscìo». Immergersi in questi versi è seguire l’andamento di un sismografo dalla linea frastagliata, che alterna brusche impennate – in corrispondenza dei vocaboli che denotano urti e strappi – a momenti di tensione contenuta o di distensione, sprazzi di luce senza increspature. La distensione non è sinonimo di stasi, ma si accompagna ad un moto dello sguardo verso un fuori/dentro, uno sguardo veicolo di analisi e scandaglio interiore. È così che, dalla consapevolezza della perdita dell’unità originaria («abbiamo perso un mondo quando abbiamo rinunciato/ all’esatta sincronia del battito») matura la ricerca di un senso di unione interno, la scoperta di un sé che ha mille volti ed è uno. Nell’armonia delle scelte lessicali e foniche, nell’estrema risonanza tra significato e significante, la poesia dell’autrice si sporge dal liminare verso un comune orizzonte imperscrutato. Francesca Innocenzi
- Guglielmo Aprile legge "Prove per un atto unico" di Maria Benedetto Cerro
Fin dal primo, programmatico testo della sua ultima raccolta, Maria Benedetta Cerro dimostra l’intenzione di inscrivere la propria poetica nel raggio di una paziente e assorta auscultazione dei misteri dell’interiorità; la scrittura si sforza di perimetrare una sorta di regione altra, separata dal mondo esterno e priva di sbocchi sul quotidiano: un nucleo nascosto sotto la mobile superficie del contingente, non accessibile tramite le bussole dei canali comunicativi ordinari né attraverso un rapporto tra soggetto e mondo impostato in termini cartesiani, oltre le cui soglie l’individuo, scopertosi solo, si spoglia di ruoli e di nomi e si affranca dell’identità sociale convenzionale. Dietro Prove per atto unico sembra intravedersi la cornice di una riflessione metafisica: la nostra esistenza si dipana su due binari giustapposti, che nelle sporadiche ma preziose circostanze in cui si incrociano riverberano la scintilla dell’evento poetico: da un lato, agiamo su un territorio esteriore, fittizio, biograficamente documentabile, e dall’altro sperimentiamo una dimensione segreta, quella del sogno, su un palcoscenico che ha un unico testimone, peraltro non sempre attendibile; a tale dicotomia si accompagna quella tra vita e scrittura, tra le quali si instaura una complementarità che trascende l’apparente antitesi: “ciò che non dissi / ogni giorno scrissi”. L’indagine intorno al “retro delle cose” trova il suo sbocco simbolico nell’immagine di una città inesplorata, avventurandosi nella quale è però insito il rischio della perdizione: l’anima potrebbe scontare con la follia la hybris della propria pretesa di conoscere se stessa, finendo reclusa nel “confino” di un limbo senza ritorno e dalle coordinate sfuggenti; i connotati di questo viaggio introspettivo si prestano con naturalezza a una interpretazione di tipo psicanalitico, tenendo conto che il labirinto, così di frequente evocato nel corso dell’opera al punto da essere nominato nel titolo di una delle sezioni in cui la stessa è scandita, è emblema del sostrato ctonio della mente, l’intricata e tenebrosa tana dei mostri del subcosciente in perenne agguato sul cammino della razionalità, entro cui è costante il pericolo di perdere il filo per uscire alla luce e di smarrirsi. L’impresa poetica è assimilabile al gesto arcaico di Teseo che sfida l’oscurità sinuosa e tentatrice e sconfigge il Minotauro; d’altronde, come evidenziato anche dalla prefazione, il culto di una Madre universale, erede della Cibele di ascendenza minoica, è rinvenibile in forma discreta e sotterranea in più punti dell’opera. Per cogliere il segreto che la coscienza vela al proprio stesso sguardo, occorre abdicare ai logori mezzi di indagine forniti dalla logica e dal senso comune: come ricordano tradizioni mistiche eterogenee, dai Neoplatonici al Tao, da Eickhart a Dionigi l’Aeropagita, anche nella voce dell’autrice gli opposti si saldano e la verità si offre nell’ossimoro, perché la vera vista è consentita solo quando gli occhi sono chiusi, mentre ogni luce, se fissata alla sorgente, rivela il “nero totale” di un enigma senza fondo. Parallelo all’odissea onirica, il viaggio dei giorni, non meno pauroso ed esposto ad insidie e a prove, cerca “nel nulla un cammino possibile”: sorte che unisce tutti i viventi; tuttavia, riconoscendo negli altri lo specchio di un “comune andare multiplo”, il singolo avverte come non solo sua l’inquietudine di tendere verso una destinazione incognita, ed è preso dalla vertigine suscitata dalla percezione di “una forza smisurata”, che mette di fronte a un baratro di ampiezza sovraindividuale, sotteso ad ogni esistenza. L’itinerario verso il ricongiungimento con “un se stesso ignoto” è incerto: può capitare di accorgerci che “chi eravamo non siamo”, o che la nostra ricerca si risolva in inconcludente “saliscendi”, tra “muri a picco” da cui si preferirebbe a volte precipitare giù, o in affannoso strisciare nel buio di un sonnambulo che tiene per mano un bambino, ignaro in merito a chi dei due guidi l’altro e verso dove; e non importa se l’Anima junghiana tenga compagnia al protagonista di tale cieco brancolare. L’io, niente più che una “cosa pensante”, si scopre plurale e si fa teatro di voci dissonanti (e lo stesso titolo dell’opera rimanda a una metafora prestata dal linguaggio drammaturgico, anche se adattata a una similitudine, che ritroviamo anche in Kundera, tra la vita e l’esibizione di un attore che entri in scena senza aver prima mai provato), sede di un conflitto nevrotico fra diverse proiezioni di un’unica ma frantumata personalità, interagenti dialetticamente fra loro ma incapaci di trovare un accordo che ne concili le divergenti istanze: la parte adulta si rivolge a quella infantile, nel tentativo di rassicurare un “se stesso spaventato” e di fargli da madre, proteggendolo da incubi e paure, prima fra tutte quella della morte, al cui “appello” a nessuno è concesso non rispondere. La nostra durata ha la brevità di un “inciso” e il tempo srotola il suo gomitolo lungo un dedalo che non ripercorrerà a ritroso; eppure è la coscienza della mortalità a qualificare il nostro essere umani, visto che a gettare ombra sulla terra è solo ciò che è, pur per un tempo ristretto, vivo. Il destino che attende le creature è una casa “dalle porte spalancate” e ciascuno è condannato, come se andasse per il mondo con un “invisibile pugnale” piantato nella fronte; ma è proprio a confronto con la morte che abbiamo il dono di apprezzare la bellezza nella sua fragilità e unicità: il disarmante splendore del “sole che dilaga nel giovane verde”, o l’ebbrezza dei momenti di autenticità, in cui sentiamo pulsare nelle vene il “grido vivo del sangue”. Non siamo in grado di tradurre nelle “nostre vite analfabete” il fasto cromatico con cui “l’aprile sciagurato” ci prova a parlare, e guardiamo con attonita estraneità la “gara d’erba” che esplode sulla terra primaverile rigogliosa di linfe e di umori; tuttavia la natura ci invia di tanto in tanto messaggi compiacenti, rivelando che quei “nuvoli” di passaggio sull’orizzonte potrebbero apparirci come nostri “improvvisati fratelli”. Non rare le occasioni in cui una epifania di gioia, talvolta memore di fascinazioni montaliane, si manifesta sulla pagina: anche quando il viale sembra “abbandonato” e l’aia “più deserta”, ci sorprende il miracolo di scoprire, in estatico trasalimento, una fioritura di “violette” dalle crepe dei muri; e nel “bosco intricato” in cui investighiamo un possibile varco “sempre apre spazi il sole” e la speranza scorge spiragli “nel più fitto buio”, insospettate piste verso “un’isola estiva” tra le pieghe del “crudo inverno”. La transitorietà è scritta nell’essenza della nostra presenza nel mondo, oltre che nel dettato bugiardo con cui il vento scuote i corpi, ma accettarla è il solo viatico per non essere annientati dalla inevitabile quota di sofferenza che essa implica, come attesta la faustiana invocazione di fermarsi che l’autrice grida al presente, quando afferma di trovare un senso e una giustificazione alla caducità dell’attimo nell’approvare che “resti dov’è ogni cosa / sul ramo pieghi il capo la rosa”. La morte, infallibile contabile, svolge le sue “operazioni elementari”, mescolando numeri in una sfera che appare ai nostri occhi “opaca”; ma al suo algebrico rigore la forza della parola contrappone la fede che “solo ciò che ha nome esiste e vale”: se, come la fisica moderna ha dimostrato da Einstein in avanti, nessuna cosa in natura conosce la stasi, ma è soggetta al vento doloroso dell’impermanenza e dell’aleatorietà (che “va dove vuole e come vuole canta”), questa poesia sancisce il nostro diritto ad aggrapparci all’ultima illusione risparmiata dal moderno degrado relativistico di valori e convinzioni, quella che la “cantilena della lingua” sappia ancora offrirci il miracoloso balsamo “che risana la vita lacerata”. Meritano infine attenzione talune originali scelte formali messe in atto sul versante compositivo, come quella di non incolonnare sempre i versi sul margine sinistro della pagina, disponendoli invece in modo da ritagliare spazi bianchi tra i sintagmi, allo scopo di esaltare l’espressività degli stessi attraverso la sfasatura tipografica secondo cui è organizzata la loro collocazione all’interno del testo. Guglielmo Aprile
- "Il cinque maggio" di Alessandro Manzoni riflessioni di Marvi del Pozzo
Ritratto di Alessandro Manzoni - Francesco Hayez - 1841 - Milano, Pinacoteca di Brera Spunti di riflessione sulla sua poetica: fenomenologia de Il cinque maggio In occasione dei 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, alcune considerazioni poco accademiche, alla luce dei giorni attuali. Non si discute sul romanzo: I promessi sposi non si discostano dalle grandi pitture storiche e di ambiente dei grandissimi: Tolstoj, Balzac, per giunta con capacità psicologiche in certi personaggi che lo fanno avvicinare a Dostoevskij. Però Tolstoj è nato nel 1828, quando I promessi sposi avevano già avuto la prima stesura (1825/27), Dostoevskij è nato nel 1821. Solo Balzac è contemporaneo, non parliamo di Proust che scrive Alla ricerca del tempo perduto tra il 1913 e il 1927. Quindi Manzoni è antesignano di tutte le peculiarità della narrativa del periodo a lui posteriore. È figlio del suo tempo, Manzoni: è l’età del Romanticismo e ne accoglie le istanze internazionali: il suo è romanzo storico, alla Walter Scott, per celebrare non i potenti della terra ma o i piccoli, o chi di alto lignaggio sposa la causa dei piccoli, cioè della maggioranza della gente, quella che alla lunga farà la storia e non solo la subirà, come è sempre successo nei secoli. Le vicende hanno fondamento concreto, addentellati storici ben precisi, non sono storie da fantasy, da Trono di spade o da telefilm odierni, che pure avevano nella narrativa molto successo anche allora, soprattutto in Germania e in Inghilterra. I punti forti sono nel Manzoni da un lato quelli stilistici: il problema di una lingua unica e chiara, che cementi tante regionalità in una sola unica nazione (ideale del Risorgimento italiano), ma soprattutto un’idealità comune, che faccia di gente ‘dispersa’ un popolo; la religione, come tradizione e credo comune, massimo collante popolare per il raggiungimento di una unità nazionale. Sono concetti ricordati qui superficialmente, perché non è questo l’argomento di oggi, ma forse era bene riepilogarli per sommi capi. Questo per dire che chi è grande romanziere non è detto sia grande poeta, anzi avviene quasi sempre che i generi letterari diversi richiedano doti diverse e chi ha eccellenza in un campo raramente lo abbia nell’altro. Personalmente a me viene alla mente un nome solo, eccellente nei due campi, prosa e poesia: Borges, per me quasi un unicum. Da noi anche Pavese, a parte una dozzina di poesie, ad essere ‘generosi’, non ha scritto nulla che possa paragonarsi ai romanzi La bella estate, Il compagno o La luna e i falò. È opinione personale. Va detto, ma bisogna avere il coraggio di riconoscere e sostenere le proprie convinzioni letterarie. Non amo la poesia di Manzoni, anche se riconosco che è stata funzionale allo sviluppo del Risorgimento italiano, ma aveva uno scopo, per lo più strumentale, di formazione civile. La caratteristica primaria della poesia è un’altra: è capacità evocativa, è parola ‘significante’, è creatrice di libertà, di emozione, di volo, di pensiero, persino di promulgatrice di arte nuova in chi legge o ascolta. È vero che, vivaddio, è importante nella poesia anche una funzione civile, sociale, di presa di coscienza, di assunzione di responsabilità di fronte al mondo – ci mancherebbe altro –, ma la suggestione nel lettore deve avvenire per mezzo della forza dell’arte, della parola libera che spinge appunto ad una libertà nelle idee e nell’azione, dettate da un forte convincimento personale raggiunto, a volte con travaglio, non per un pensiero instillato e praticamente imposto a ripetizione in poesia, giocando con la propria competenza di strumenti tecnici e stilistici usati all’uopo, cosa che vi farò notare, esemplificando tramite Il cinque maggio, testo tra i più conosciuti e celebrati della poesia manzoniana. La poetica di Manzoni è incentrata sul pensiero cui voleva convincere, tramite la poesia appunto, i suoi contemporanei. Come già mise in luce fin dagli anni ’80 Giulio Bollati,[1] il pensiero di Manzoni rappresenta meglio di qualsiasi altro l’ambiguità, per non dire aporia, tra due fenomeni contrastanti. Da un lato lo sviluppo di una società borghese di stampo liberista porta a una spregiudicata subordinazione dei mezzi al fine prioritario di uno stato nuovo indipendente, che permetta all’Italia di superare il ritardo politico e civile rispetto ad altre situazioni d’Europa, d’altro canto il conservatorismo imperante è freno non indifferente. C’è paura di spinte rivoluzionarie, che scardinino lo status quo, cioè quella civiltà umanistica e cristiana, fondata su stabilità di classi sociali, di cui la terra, l’agricoltura, è base naturale. La poetica manzoniana sceglie questa seconda strada, cioè il mantenimento di una società organica a fondo agricolo, dove non c’è gara o ricerca di sopraffazione, ma una grande benevolenza di tutti verso tutti, in una società né tirannica né repressiva, in un certo senso ‘democratica’, in difesa contro ogni spinta rivoluzionaria o contro ogni spavalda corsa liberale verso industrialismo e cambiamenti radicali. Questi valori, che fanno parte della poetica manzoniana, trovano leva necessaria in un’etica religiosa per il mantenimento della pace sociale (carità verso i poveri, assistenzialismo, paternalismo) che non tollera il cambiamento dei rapporti di classe. La massa per Manzoni è pericolosa (vedi i moti di Milano ne I promessi sposi: la sua critica feroce nel’esemplarità del ‘vecchio malvissuto’). La religione impone di non reagire alle sopraffazioni in nome della Fede nell’al di là e dell’imitazione di Cristo: impone a ciascuno di attendere ai doveri inerenti al proprio stato, con pazienza e benevolenza reciproca. È una società quindi immobilista, retta da un moralismo religioso, in fondo molto conservativo, rigoroso e gretto. Ne consegue una morale immobilista che conduce alla stasi, all’inazione politica. Nella poesia che consideriamo oggi – Il cinque maggio – emerge da un lato il rifiuto di considerare gli eventi e l’azione del personaggio storico protagonista (Napoleone). Pericoloso prendere una posizione storico-politica, meglio non parlarne e affidarsi a un’ipotetica azione divina al momento del giudizio finale, di cui l’uomo nulla sa, può solo sperare in bene. Pavidità. Di questo passo, portando alle estreme (forse paradossali) conseguenze, non ci si esprimerebbe mai di fronte ai peggiori crimini della storia: Hitler, Stalin, Pinochet… Putin? Brutta posizione l’ignavia, e… pericoloso insegnamento: una attitudine pilatesca. Manzoni perpetua, per conto suo, quell’eterno vizio di girarsi dall’altra parte, ma nell’apparente bonomia del dire: chi sono io per giudicare e prendere posizione? In queste parole non si nasconde necessariamente un animo eletto. Oggi gli eredi di questo tipo di pensiero sono tanti: quelli che si lavano le mani nelle tragedie di Cutro o dell’Ucraina, per esempio. Del resto per il Manzoni non c’è soluzione terrena per chi è vittima della ragion di stato o dei soprusi dei potenti. Esemplare è la tragedia Adelchi: come per il fratello, all’infelice Ermengarda nel Coro dell’Atto quarto non resta che la speranza dell’al di là e l’invito poetico ripetuto: “muori!”. Imperativo quasi ‘categorico’, ripreso per ben quattro volte nel testo (versi 16 – 88 – 105 – 109). È legittimo essere più che perplessi, dopo 150 anni? Consideriamo ora i mezzi stilistici funzionali a trasmettere questi contenuti. È importante per l’autore arrivare al massimo numero possibile degli italiani futuri, quelli, pochi ancora, comunque in grado di scrivere, leggere e capire. Analizzando Il cinque maggio, ode composta in pochi giorni (dal 17 al 20 luglio 1821) sull’onda delle emozioni seguite alla notizia della morte di Napoleone a Sant’Elena, la prima considerazione va alla struttura metrica dell’opera: leggo nei libri di scuola che si tratta di sestine di settenari, il primo, il terzo, il quinto sdruccioli, il secondo e il quarto piani, l’ultimo verso della sestina è tronco e rimato col verso finale della strofa successiva, pure tronco. È vero questo, secondo le strette regole dell’accentazione, per cui il verso che termina con una parola sdrucciola conta per sette sillabe anche se è in pratica un ottonario, così come vale a mo’ di settenario il senario che termina con parola tronca. Ma alla lettura ad alta voce questo espediente mi pare che valga poco: la metrica italiana è sostanzialmente sillabica e risulta quindi la musicalità di un ottonario (1° - 3° - 5° verso) affiancata a un settenario (2° - 4° verso) e a un senario nel sesto verso. Nella dinamica della lettura questo risulta evidente. Che significa in pratica ciò ne Il cinque maggio? Che c’è un andamento ritmico altalenante, funzionale perché facile alla memoria del lettore-ascoltatore, ma non è da filastrocca popolare o addirittura bambinesca, cosa che l’uniformità del settenario rigoroso avrebbe impresso, del tutto inadatta ad un argomento così importante e serio. Del resto, se proviamo a leggere di seguito i settenari (cioè il 2° e il 4°verso di ogni strofa) andando avanti per un poco vedremo il risultato… Inadeguato! Così Manzoni anticipa in qualche modo l’uso di un verso libero, ma in un insieme molto agevole e sonoro, in quanto il suo intento è quello di rivolgersi a un pubblico il più vasto possibile, anche a quello meno colto, meno ‘attrezzato’ culturalmente, col verso breve, con l’uso di parole tronche, musicali e semplici, che facilitino anche la memorizzazione. L’architettura metrica ci fa comunque capire come il Manzoni fosse poeta profondamente conoscitore delle norme tecniche e stilistiche e se ne servisse sapientemente per avvicinare, anche con espedienti psicologicamente efficaci, il lettore al testo e soprattutto al pensiero ad esso sotteso. Questo gli va riconosciuto e… tanto di cappello! È facile questo testo, si impara facilmente a memoria: il lettore, agevolato dal ritmo cantilenante, dalla ripetitività della strofa che termina sempre tronca, non dimentica perché è come il ritornello musicale ricorrente di una canzone – mi si perdoni l’azzardo – ma di fatto è così, che piaccia o no. È un testo che vuole avvicinare tutti, anche i semplici di spirito: nell’economia del linguaggio, il ritmo concitato dell’epopea napoleonica è caratterizzato da brevi sintagmi simmetrici (versi 25, 26, 29-30, 43-48, 79-84), da tempi verbali che danno il senso della rapidità degli eventi e della fugacità del tempo umano: tutto ei provò – ei si nomò – si assise – e sparve. Si cerca di provocare un convincimento facile: attraverso una serie di similitudini (come – siccome), di comparazioni: attraverso metafore comuni passa il motivo della disillusione umana, del cumulo schiacciante dei ricordi, della vacuità del tutto. Questo allo stesso modo ne Il cinque maggio e in Ermengarda. Ma se la cosa fosse già difficile al lettore, meglio aiutare con l’arte retorica, con la ripetizione anaforica delle esclamazioni (oh quante volte…). L’enfasi può aiutare a fare passare in modo efficace il messaggio globale, introdotto già al verso 31 da un punto di domanda, senza presa di posizione umana: fu vera gloria? – Nui chiniam la fronte al massimo fattor… Si delega il giudizio a Dio, sembra che l’intelletto umano non sia in grado di farsi un’opinione. La retorica ci accompagna dal verso 70 alla fine con la serie di aggettivi che qualificano la fugacità dell’epopea umana: mobili – concitato – celere (versi 80 – 84) contrapposta al climax ascendente che si inizia al verso 85 e introduce il motivo della buona morte e del ritorno alla fede in Dio, in una immaginazione edificante che culmina nell’ipotetica visione di salvezza finale. L’al di là come deus ex machina di ogni vivente. Simile la situazione di Ermengarda nel coro atto IV dell’Adelchi. Non è possibile non riconoscere le capacità tecnico-narrative del Manzoni, ma neppure è possibile, alla luce dell’oggi, non considerare la questione determinante che il piano della storia e quello dei valori religiosi non sono coincidenti e non vanno mescolati. Ciò che mi stride, nella poesia del Manzoni, è che i conflitti tra gli interessi politici e quelli della teologia gli fanno costruire personaggi ‘bloccati’, portati alla fin fine all’inazione, personaggi irrisolti (in particolare Adelchi, Ermengarda) da poter aspirare solo alla non vita, alla morte. L’autore trasforma forzatamente – attraverso gli elementi lessicali, grammaticali, fonetici della poesia – eventi politici in storie esemplari in un senso religioso che vorrebbe essere edificante ma, a parer mio, è solo irrisolto. La lirica manzoniana è tutta prevista, prefigurata, calcolata, non è libera, non è mai aperta: l’aggettivazione frequente riporta sempre a qualifiche morali, tutto è già scontato, mai problematico. Le interrogazioni sono retoriche, non aprono dubbi, la risposta è implicita, le forme spesso usate dell’imperativo sono costrittive, non prevedono libertà di scelta: ma che irrespirabile prigionia! Già negli anni Sessanta Barberi Squarotti – nel suo libro Teorie e prove dello stile del Manzoni, Silva edizioni 1965 – chiarisce come i personaggi della lirica manzoniana costituiscano un mondo di modelli’ esemplari’, di cui posseggono tutta la fissità, l’immutabilità, ponendosi come valori di testimonianza fissata ab aeterno dall’autore. Già messo in crisi negli anni Sessanta, questa forma di paternalismo manzoniano oggi, a maggior ragione, non si regge più, né come contenuto concettuale (se non come testimonianza storica) né come produzione poetica, zeppa come è di artifici retorici, di enfasi, di imperativi categorici, da una parte, di formule di edificazione religiosa, dall’altra. Personalmente metto in crisi un pensiero ‘unico’, che stimola al ‘vogliamoci bene comunque’ e al non pensare pericolosamente con la propria testa al fine di mutare ciò che mutabile non è, ma ugualmente metto in crisi la forma linguistica sorpassata, retorica, paternalistica (per quanto abilissima) con cui si intende fare passare il contenuto. Manzoni ha un rispetto eccessivo per l’ordine costituito: forse gli è rimasto qualche brandello di ancien régime, quando si regnava per volere divino e la mobilità sociale era solo utopia di sovversivi? Domanda retorica nello stile della lirica manzoniana! [1] Giulio Bollati, L’italiano, Einaudi 1983 Il cinque maggio Ei fu. Siccome immobile, Dato il mortal sospiro, Stette la spoglia immemore Orba di tanto spiro, Così percossa, attonita La terra al nunzio sta, Muta pensando all’ultima Ora dell’uom fatale; Nè sa quando una simile Orma di piè mortale La sua cruenta polvere A calpestar verrà. Lui folgorante in solio Vide il mio genio e tacque; Quando, con vece assidua, Cadde, risorse e giacque, Di mille voci al sonito Mista la sua non ha: Vergin di servo encomio E di codardo oltraggio, Sorge or commosso al subito Sparir di tanto raggio: E scioglie all’urna un cantico Che forse non morrà. Dall’Alpi alle Piramidi, Dal Manzanarre al Reno, Di quel securo il fulmine Tenea dietro al baleno; Scoppiò da Scilla al Tanai, Dall’uno all’altro mar. Fu vera gloria? Ai posteri L’ardua sentenza: nui Chiniam la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui Del creator suo spirito Più vasta orma stampar. La procellosa e trepida Gioia d’un gran disegno, L’ansia d’un cor che indocile Serve, pensando al regno; E il giunge, e tiene un premio Ch’era follia sperar; Tutto ei provò: la gloria Maggior dopo il periglio, La fuga e la vittoria, La reggia e il tristo esiglio: Due volte nella polvere, Due volte sull’altar. Ei si nomò: due secoli, L’un contro l’altro armato, Sommessi a lui si volsero, Come aspettando il fato; Ei fe’ silenzio, ed arbitro S’assise in mezzo a lor. E sparve, e i dì nell’ozio Chiuse in sì breve sponda, Segno d’immensa invidia E di pietà profonda, D’inestinguibil odio E d’indomato amor. Come sul capo al naufrago L’onda s’avvolve e pesa, L’onda su cui del misero, Alta pur dianzi e tesa, Scorrea la vista a scernere Prode remote invan; Tal su quell’alma il cumulo Delle memorie scese! Oh quante volte ai posteri Narrar se stesso imprese, E sull’eterne pagine Cadde la stanca man! Oh quante volte, al tacito Morir d’un giorno inerte, Chinati i rai fulminei, Le braccia al sen conserte, Stette, e dei dì che furono L’assalse il sovvenir! E ripensò le mobili Tende, e i percossi valli, E il lampo de’ manipoli, E l’onda dei cavalli, E il concitato imperio, E il celere ubbidir. Ahi! forse a tanto strazio Cadde lo spirto anelo, E disperò: ma valida Venne una man dal cielo, E in più spirabil aere Pietosa il trasportò; E l’avviò, pei floridi Sentier della speranza, Ai campi eterni, al premio Che i desidéri avanza, Dov’è silenzio e tenebre La gloria che passò. Bella Immortal! benefica Fede ai trionfi avvezza! Scrivi ancor questo, allegrati; Chè più superba altezza Al disonor del Golgota Giammai non si chinò. Tu dalle stanche ceneri Sperdi ogni ria parola: Il Dio che atterra e suscita, Che affanna e che consola, Sulla deserta coltrice Accanto a lui posò.
- Riflessione sul Realismo Terminale ovvero “oggettivismo sostitutivo” di Salvatore Contessini
foto di Dino Ignani A distanza di tredici anni dalla pubblicazione de Il Realismo Terminale di Guido Oldani, i temi posti, hanno iniziato a produrre significativi interrogativi, e confronti di carattere culturale che cominciano ad avere riferimenti anche oltre l’ambito poetico. Le cosiddette “rubriche” di poesia, presenti più o meno quotidianamente sulle pagine culturali dei giornali o blog dedicati, hanno avuto modo di occuparsi dell’agile libretto, edito da Mursia. Alcune riviste di poesia hanno anche ritenuto di dover affrontare o, meglio, scrivere, dei molteplici profili che l’argomento solleva anche sulla vicenda del “canone”. Provo qui a riprendere l’argomento e se possibile condividere alcune mie riflessioni. La galassia degli oggetti occupa in questo nostro tempo una posizione centrale; pertanto, è nei possibili indirizzi poetici che possono essere trovati riferimenti e considerazioni sul tema: Oldani porta alle estreme conseguenze questa possibilità fino a proporla con riferimento al “Canone Poetico”. Anche se mai definita come tale, possiamo arrivare a parlare di poesia Terminalista o, meglio ancora, per entrare nel solco della nostra tradizione culturale, Terminalismo. Il secolo scorso ci ha dato, Decadentismo, Futurismo, Ermetismo, Surrealismo, ora è tempo che le varie e numerose prolusioni sul canone trovino una indicazione adeguata alla nostra contemporaneità e così sembra che il Terminalismo possa assumere la veste di un plausibile indirizzo alla questione. Intendiamoci, come ben ci spiega Oldani, l’aggettivo terminale non deve fuorviarci a nessuna significazione di fine, bensì deve far scattare la riflessione su quanto avviene in merito alla riduzione sempre più consistente della distanza tra uomo ed oggetto fino all’intervallo zero in cui l’identificazione uomo-oggetto diviene infinita. Il pregio dell’operazione di Oldani è quello di ripensare il proprio compito, disincrostare dalle opacità di sistema la consapevolezza della propria funzione, riproporre ruolo e attività dell’intellettuale esercitando sì la responsabilità della critica, ma soprattutto, quella funzionale del “poeta pensante”. Nell’attuale organizzazione sociale è venuta meno una chiara struttura della produzione e del ciclo produttivo, la produzione di merci è sostituita dalla produzione di servizi, la fatica del lavoro manuale è quasi totalmente soppiantata dalle macchine, l’alienazione delle operazioni ripetitive è ridottissima. Gli oggetti, soprattutto quelli di consumo, sono fatti altrove da una forza lavoro paurosamente lievitante assimilata all’oggetto “usa e getta” L’emancipazione delle masse con il lavoro è divenuta asservimento delle masse agli oggetti, perdita di riferimenti sociali strutturanti, mancanza di nessi culturali adeguati. Il lavoro, per come lo conoscevamo derivato dell’industrializzazione, è scomparso: non c’è più se non nei paesi in cui ora sono presenti le condizioni di sviluppo industriale e sociale che l’Europa ha già sperimentato. La crisi del lavoro è crisi sociale, crisi intellettuale e culturale. Questa del Realismo Terminale sembra essere una indicazione di percorso, meglio, di svolta. Di riconsiderazione del punto in cui ci troviamo e tutto sommato, l’individuazione di un profilo in cui ci dibattiamo ormai da troppo tempo. Ritengo si tratti di una intuizione attorno alla quale sia stato fatto un impegnativo lavoro di scarnificazione e lucidatura che ha iniziato a dare i suoi frutti e che non è affatto concluso, foriero ancora di potenziali iperboli non solo sulla questione del Canone, ma sulla ridefinizione del ruolo dell’intellettuale e sull’utilizzo di quanto individuato come “inversione della similitudine” da soggetto a oggetto-soggetto. Scrivendo del ruolo che incarna, Oldani si sofferma sul poeta metropolitano, privo di senso, cambiato nell’unità di misura ipersproporzionata, “ago in un pagliaio” nell’infinito oggettuale senza più ruolo riconosciuto; idoneo solo ad affrontare il bricolage occasionale del fare, in una urbanità dispersa, trasformata in “pandemia abitativa”. Ho avuto modo di sperimentare come tale pensiero possa ben attagliarsi anche alla disciplina Urbanistica, con cui, per motivi professionali, mi sono misurato, scoprendo per tale materia un efficace riscontro con quanto espresso dalla poetica del Realismo Terminale. Oltre al dominio degli oggetti sull’uomo ed alla similitudine rovesciata, Oldani ben identifica con il termine “pandemia abitativa” la condizione di criticità alla quale siamo sottoposti e nella quale ci dibattiamo da almeno un trentennio. Questa criticità è facilmente riscontabile, da qualche anno, anche in ciò che gli urbanisti hanno individuato come fenomeno in atto che riguarda parte delle nostre città denominandolo A- crescita; sfida imprevista che comporta la ritirata degli spazi urbani, con ampie parti di città che vengono dismesse e lasciate scivolare verso un predestinato degrado e alla miseria sociale. L’analogia ad una dismissione di manufatti “oggetti urbani”, contenitori che non svolgono più alcuna funzione, risulta alquanto evidente mostrando come ad altri ambiti disciplinari possa adattarsi quanto espresso del R.T. Il fenomeno coinvolge non sole funzionalità produttive, ma anche ambiti residenziali. (valga come esempio eclatante quanto avvenuto a Detroit, diminuita di due terzi della sua popolazione negli ultimi trent’anni). L’idea che l’organizzazione urbana abbia una crescita senza limite viene regredendo a fronte della contraddizione che vede l’innescarsi di elementi di fuga dai grandi centri con un ritorno a dimensioni vivibili più eque e rassicuranti riportando nella cinta urbana ambiti di campagna o di verde in sostituzione di quelli dismessi. Come suggerisce Oldani, occorre ridiscutere alla radice l’imbozzolarsi oggettuale nel quale siamo inabissati. Stringere la cintura urbana anziché allargarla all’infinito ed esaltare tutto ciò che può essere messo in “rete”, per ripensare la moltitudine di oggetti simbolo affrancandoli dal superfluo e ridefinirli nell’essenziale. Eccoci di fronte a grandi sfide, ma se ci si pensa e si specula intellettivamente, altre ne vengono in evidenza. L’idea del Realismo Terminale appare come un’opportunità di nuova lettura di fenomeni contemporanei così come lo è sotto il profilo dell’esercizio poetico. Non si può evitare di documentare l’epoca che si rinviene e farne poesia, soprattutto se nell’esercizio di critica intellettuale si assume la responsabilità di interpretarne il ruolo e manifestarne la consapevolezza. Qui si mostra la forza della proposta di Guido Oldani. Se gli oggetti si sostituiscono alla natura perché non farne fonte di poesia come lo è stato la natura in passato? Il passo successivo è: tale condizione può divenire “canone di riferimento” a cui rapportare l’azione poetica ed il versificare? Posso riferire, nella mia limitata esperienza di lettore di poesia, di come l’oggettivismo sostitutivo si insinua lievemente ma sempre più spesso nella versificazione poetica. Valga a tale proposito l’antologia: Novecento non più- verso il realismo terminale- del 2016 con cui si è voluto monitorare l’aderenza di scrittura poetica, volontaria o involontaria, alle tesi del realismo Terminale. Per l’occasione sono state selezionate poesie con riferimenti al mutamento antropologico di inurbamento e accatastamento dei popoli che ha rilevato la supremazia degli oggetti sulla natura, nonché testi in cui è risultato evidente l’utilizzo della similitudine rovesciata in cui è l’oggetto il termine di paragone o il soggetto a cui l’umano o la natura sono riferiti (es. è un atleta veloce come un Frecciarossa) A questa innovativa tendenza, come risposta all’invasività dell’oggetto, e per una sorta di reazione, ho avuto modo di verificare come rimane ben salda la tradizione di componimenti che rifuggono nel forsennato intimismo o con deviazioni nel mimetismo, abbandonando gli oggetti per rifluire in una centralità individuale, a rappresentare il solo luogo rifugio dove il disagio dell’esistere si attenua e si fa sopportabile, L’oscillazione della poetica del quotidiano tra il dissolvimento del soggetto nell’oggetto e il rifluire del soggetto nell’astrazione metafisico-mimetica, sintetizzano i due “corni” della questione Terminalista: campo di battaglia o confortevole rifugio? Al di là della annotazione di fatto, Oldani non partecipa dell’una o dell’altra, né indica la via; solo rinviene e documenta nei suoi versi l’epoca dell’oggettivismo diversamente da quanto fa la cultura attuale che sembra non percepire il presente in essere, il traversamento in corso. Nei suoi componimenti, ancorché amari, l’ironia diviene folgorante sintesi, cifra distintiva, direi marchio di fabbrica difficilmente riscontrabile in altri poeti, lasciando comunque aperto il dilemma e la prospettiva che pongono i due corni. L’interrogativo sul futuro possibile, assimilato metaforicamente ad un baco da seta, potrebbe ben essere quello del bozzolo-farfalla oppure quello del bozzolo–sarcofago: la responsabilità ricade su ognuno di noi e per quanto a quella del Poeta, sembra che la partita sia stata aperta con assunzione in proprio di incombenze che hanno travalicato ben oltre la funzione dei versi per assumere forme di onde sonore sempre più pressanti in cerca di padiglioni auricolari capaci di recepire e comprendere il suono dell’intellettuale pensante. Salvatore Contessini (giugno 2023) Guido Oldani è il fondatore del Realismo Terminale. È del 1985 la raccolta Stilnostro (ed CENS). Seguono: Sapone (Rivista Kamen’, 2001), La betoniera (LietoColle, 2005), Il cielo di lardo (Mursia, 2008), Il Realismo Terminale (Mursia, 2010), La guancia sull’asfalto (Mursia, 2018), Farfalle di cemento (2018 Tranan, Svezia). È presente in diverse antologie, tra cui: Il pensiero dominante (Garzanti, 2001), Tutto l’amore che c’è (Einaudi, 2003), Almanacco dello Specchio (Mondadori, 2008), Luci di posizione (Mursia, 2017), Poesie italiane 2016 (Elliot, 2017). Dirige la Collana di poesia Argani e collabora ad Avvenire e Affaritaliani. È tradotto in inglese, svedese, tedesco, russo, arabo, rumeno, spagnolo, polacco, cinese, uzbeco. Nel 2014, al Salone del Libro di Torino, il Realismo Terminale diventa movimento con il Manifesto breve (Oldani, G.Langella ed E.Salibra). Sulla sua poetica Amedeo Anelli ha pubblicato: Alla rovescia del mondo. Introduzione alla poesia di Guido Oldani (LietoColle, 2008/2012) e Oltre il Novecento. Guido Oldani e il Realismo Terminale (Libreria Ticinum 2016 e 2022 con poesie inedite). Salvatore Contessini (Roma 1953), poeta, saggista, architetto e collaboratore editoriale da circa vent'anni. Ha pubblicato:Il sole sotterraneo della luce nera (2003); Domestico servizio (2007); Criptogrammi – tetralogia di un alfabeto rivelato (2008); A guardia del riposo (2011); Una tempesta di parole - suggerimenti accolti (2011); Dialoghi con l'altro mondo (La Vita Felice 2013) con il quale è stato segnalo al Premio Poesia Lorenzo Montano 28 ed. (2014), finalista a Premio Internazionale di Poesia e Narrativa “Percorsi Letterari dalle Cinqueterre al Golfo dei Poeti” 2014 e finalista Premio Internazionale di Narrativa e Poesia Città di Caserta 2015; La cruna (La Vita Felice 2018) con il quale ha ricevuto la Menzione d’onore Premio Montano 2019; La direzione del silenzio (La Vita felice 2021). Ha curato i volumi antologici Dalla stessa parte - uomini contro la violenza sulle donne (2021)con Salvatore Sblando; Fotoscritture – Istantanee di Erico Menczer - immagine e poesia (2005);, Scritture urbane - Appunti fotografici di Gianfilippo Biazzo, Immagine e Poesia su Roma (2007); Arbor Poetica - Poesie su immagini di Stefano De Francisci (2011) e Novecento non più - verso il Realismo Terminale (2016) con Diana Battaggia; Il diario poetico Il segreto delle Fragole, edizione 2007 con Stefania Crema.
- "7 Poemetti" di Franca Alaimo (Internolibri) letto da Francesca Innocenzi
Con la sua ultima silloge 7 poemetti (Edizioni Interno Libri 2021) Franca Alaimo ci fa dono di una scrittura lirico-visionaria saldamente radicata nel reale; una scrittura in grado di far propria la tradizione letteraria, dalla classicità al Novecento, in una elegante corposità della parola, che rende l’analisi dell’interiorità uno dei tratti peculiari della narrazione. Delle due sezioni che compongono l’opera, la prima, costituita dai poemetti, elegge il verso come luogo in cui l’enunciato si dispiega e prende spazio, mentre la seconda mette in risalto la scelta della brevitas in frammenti di prosa «di natura diaristico-aforistica» (così Giovanna Rosadini nella prefazione). Non per questo viene meno la coesione interna, assicurata dalla ricorrenza di temi e immagini che legano testi dal diverso impianto formale in un unicum portatore di significati. Tratto unificante è la presenza del divino, che, grazie al potere evocativo della parola, si fa immanente e prende corpo in uomini e animali. Come Zeus assumeva gli aspetti più disparati per amare fanciulle mortali, così la divinità si cela in forme inattese per effondere creazione, amore, vita; un essere divino che talvolta si manifesta come Dio cristiano, altre volte vive negli antichi miti. Testimoniando l’intreccio degli opposti nel groviglio dell’esistere, l’io poetante attraversa la passione di Cristo sulla croce e nel contempo si riconosce in dèi ancestrali che segnano cicli di morte e rinascita. Il cosmo è un organismo sacro, e l’alternarsi delle stagioni è liturgia cui l’uomo nel suo quotidiano vivere prende parte: «La mia casa divenne il simbolo dell’ubbidienza/ alla liturgia cosmica, alla felicità dell’esistenza/ che più si autocelebra nelle più brevi creature,/ all’ostinazione di un’eterna trasmigrazione/ degli atomi verso altri atomi». Le memorie mitico-archetipiche forniscono chiavi di lettura del vissuto personale; del resto, è proprio la perdita di contatto con il linguaggio del mito e del simbolo a rendere l’uomo sempre più inconsapevole, sempre più prigioniero del proprio sonno. E, se è data una sostanza angelica che liberi dal contingente e dalle sue catene, questa sostanza è la poesia. La parola poetica è messaggera tra le due dimensioni, celeste e terrena, tiene insieme cielo e abissi, luce e buio. Nel proclamare la caducità delle cose mondane, la scrittura diviene memoria e attitudine all’esistenza, territorio di dialogo con le varie rifrazioni dell’io, passate e presenti; persegue la limpida bellezza dell’essenziale: «Creare un verso solo. Così bello da bastare a tutte le domande». Le parole sono dunque necessarie, per quanto a volte inadeguate ad esprimere la pienezza del sentire, una pienezza che prende corpo nel silenzio dell’ascolto e dell’accoglimento. Il pieno e il suo opposto complementare, il vuoto, confluiscono in un rapporto di identità: «Il vuoto è pieno». L’autrice elabora un concetto di vuoto variegato e sfaccettato: spazio della caduta che accompagna la morte/sogno (si considerino le allitterazioni racchiuse nel verso «Vento vuoto, voce vuota, vortice vuoto»), ma anche ospite di gioia, gravido di presenze invisibili; necessario alla materia, il vuoto coopera alla pienezza dell’universo. La labilità costitutiva dell’essere poggia tanto su assunti scientifici quanto su immagini di valenza ancestrale; tra queste ultime, il rosso sangue, emblema di istinto vitale e violenza, crudeltà e abbandono all’amore. Particolare attenzione è dedicata al simbolismo dei colori (oltre al rosso, il blu e il viola) e dei numeri (il nove, con evidenti richiami danteschi). Ciascun poemetto si rivela così un incastro di narrazioni intorno a figure portanti e campi semantici incentrati sui grandi temi dell’esistenza, oggetto di incalzanti interrogativi tra empiria e metafisica: la vita e la morte, l’amore, il divino, il tempo. In un modo imperniato su un caleidoscopio di contrari, l’io poetante si volge alla ricerca dell’armonia, in bilico tra raccoglimento in se stessa e il richiamo delle cose, nell’intento di aprirsi all’alterità, lasciarsi e lasciare andare, carpire il riflesso che lo specchio della relazione restituisce. Dal mito di Orfeo ed Euridice accoglie il monito a serbare i ricordi senza tentare di opporsi alle leggi ineluttabili, sancite dagli eterni cicli della nascita e della consunzione. L’iter narrativo bambina/donna reca tracce delle convenzioni sociali con i loro divieti e costrizioni, simbolizzati dalla ricorrenza di muri e cancelli, ostacoli nel percorso di individuazione dell’eroina. All’interno della metafora corpo/casa («Il mio corpo adolescente/ era una casa di clausura/ con un caldo tropicale/ e sogni vaneggianti»), l’eros è un percorso iniziatico a tinte delicate, dotato di una profonda sacralità tra mistero, infrazione e abbandono. E l’inesausta tensione dialettica tra l’umano e il trascendente si risolve in un’allegoria della rosa (il «per sempre - come scrive Bonnefoy – dell’effimero fiore»), a sottolineare come nella caducità risieda l’eterno, che nella frangibilità sempre viva delle cose coincide con la pienezza del vuoto, l’acme della nostra fragile perfezione. Francesca Innocenzi Franca Alaimo vive e opera a Palermo, dove ha insegnato materie letterarie. Esordisce nel 1991 con la silloge poetica Impossibile luna. Successivamente ha pubblicato altre venti raccolte poetiche, due delle quali in forma di e-book. Tra le più recenti: Elogi (Ladolfi), sacro cuore (Ladolfi), Oltre il bordo (Macabor). È autrice anche di tre romanzi e di un epistolario. Ha lavorato nella redazione della rivista L’involucro di P. Terminelli, e, successivamente, in quella di Spiritualità & Letteratura, diretta da T. Romano e ha collaborato con La recherche, rivista on-line diretta da Maggiani e Brenna. Ha tradotto dall’inglese due brevi sillogi di Peter Russell. Ha pubblicato saggi sulla poesia di D. Cara, T. Romano, G. Rescigno, L. Luisi, F. Loi, V. Fabra e sui poeti dell’Antigruppo. Molto interessata alla letteratura contemporanea, ha firmato centinaia di recensioni, prefazioni e post-fazioni. È presente in molte antologie, blog nazionali e internazionali. Alcuni suoi testi sono stata pubblicati su riviste (tra le quali Poesia di Crocetti, e Atelier di Ladolfi) e quotidiani italiani. Molti i riconoscimenti ricevuti nel corso degli anni. Nel 2020 è uscita con la casa editrice Macabor un’auto-antologia di testi poetici scelti dalle sillogi pubblicate fra il 1991 e il 2019.
- "Istruzioni per la luce" di Luca Benassi (Passigli 2021) letto da Dante Maffia
Vediamo subito che cosa è la luce per Luca Benassi: «… è scoppio, un interrotto brivido / che accende e dilania / e poi non è più / nell’occhio molle del temporale». Una dichiarazione di poetica? Un avvertimento? Una considerazione? La presa di coscienza della dissolvenza del mondo che appare e poi fugge, ma restando «un interrotto brivido»? Ed è questo ininterrotto brivido che detta e avvolge le parole, le rende carne viva di incontri indimenticabili, quelli che sono diventati la sostanza e la verità dell’intera vita, che hanno cambiato volto al passo, alla vista, al cuore. Una premessa per cercare di entrare nei versi di Benassi a occhi aperti, diversamente si perderebbero le coordinate di momenti che assumono valenze simboliche e sono, a un tempo, memoriale per stabilire l’essenziale dell’anima, per coagulare i brividi e le emozioni e cercare di capirne il senso e la valenza, il lievito e la fattibilità. Non è casuale che il titolo del libro sia stato mutuato dai manuali. Insomma, vediamo in che consistono queste istruzioni e se dobbiamo farci guidare da esse oppure respingerle, litigarci, vederne anche il lato oscuro e quello che si rifrange nelle assenze o si disperde nei quadrivi della quotidianità. Vorrei sottolineare che la poesia di Benassi, pur essendo lucidissima e coltissima, forbita ed esplicativa, non nasce mai da una predeterminazione o da un progetto stabilito, ma nasce da abbagli e da abbacinamenti che egli sa decifrare e rendere sostanza di parola che raccoglie sensazioni e calore umano, sogni mai alla deriva e visioni che sono una estensione del vissuto. Si noti che in nessuno dei componimenti c’è un aggettivo improprio, un’indicazione fuorviante, una tentazione per affermare perentoriamente il cammino compiuto. Perché è tutto sempre da compiere, sempre sul punto di rinascere e di aprire altre strade, altri connubi. Eppure, il poeta è stato in stretto contatto con letterati e scrittori di varie generazioni e di vari Paesi del mondo, con critici e studiosi insigni ed ha viaggiato e ha vissuto nella pienezza di incontri e di letture di grande interesse. Ma non si è fatto scalfire da ciò che ha ritenuto esterno a sé stesso, da ciò che poteva rendere la portata del suo dettato qualcosa che non aderiva alla complicità instaurata con la polla sorgiva della spiritualità mutuata dal sogno e da una sorta di concerto sentito come dono divino che gli ha permesso di poter conoscere la luce. Esatto, conoscere la luce, e diventare addirittura un istruttore che, avvertendo che «inizia l’assedio delle ombre» è costretto a imparare come districarsi nel momento in cui la «piena del sole… ci invade». Raramente, soltanto in Mario Luzi, in T. S. Eliot, in Wislawa Szymborska, ho trovato questa capacità di saper assemblare realtà contrastanti, momenti che hanno, a un tempo, peso realistico e felicità espressiva metafisica. Benassi affronta una varietà immensa di temi e quasi quasi non ci fa accorgere che passa dal peso di un realismo nutrito perfino di cronaca alla leggerezza metafisica che rende tutto un sussultare di indicazioni aperte al magma del divenire. Una poesia a tratti legata perfino alla filosofia, ma senza esserne chiusa o raffreddata, anzi accesa dal mistero del ragionamento che ha sfumature civili. Dico sfumature perché la limpidezza del dettato non si adagia mai nelle briglie della sociologia e così l’accento è comunque lirico, da apparentare alla naturalezza foscoliana, forse anche un tantino borgesiana. Un altro degli aspetti che affascinano di questo libro è la densità sia tematica e sia linguistica. Una densità che chiamerei circolare, ricca di suggerimenti appena accennati, di “proposte” che hanno qualcosa di spirituale e tuttavia non impongono. La fluidità di Benassi nasce probabilmente dalla necessità interiore di non voler staccare il filo che lega l’imponderabile alla concretezza e farne una compattezza affascinante. Nella bellissima prefazione di Elio Pecora questo aspetto viene ricalcato («questa di Luca Benassi è un’opera compatta nel segno alto e aperto della compassione») perché dimostra la capacità del poeta di saper coagulare la “quantità” con la qualità. Il risultato è una poesia ariosa, salda e ponderata, mai alta nei toni ma altissima nei motivi, e nella bellezza del verso, giustificata da «una luce che abbaglia / da una porta di alluminio / che pare condurre al tutto». (Dante Maffìa) (amare, uscendo dall’osteria) E poi ci sono i tavoli di osteria, i bicchieri che rimandano scaglie di purezza nel tintinnare tagliente dei coltelli, la bottiglia d’acqua fuori frigo, i tovaglioli gialli, la linea curva della fronte che si frange sulla punta che divide i tuoi capelli. Già la strada sembra un grido di vento un azzurro ingolfato fra le chiese a levigarti il sorriso sopra il volto che risplende nella piena del sole che ci invade. (via Grotta del Miracolo) I temporali, da queste parti sono nuvole cucite all’attesa alle vene celesti del cielo, per bagnare le labbra asciutte della pietra. Abbiamo attraversato i fulmini dello sguardo ci siamo cercati fra le gocce nell’elettricità degli occhi. Il resto è stato un fuggire di bimbi, uno trovare scampo sotto gli ombrelloni, un chiudere le finestre, tirare giù serrande, un tremare allo schianto del tuono. Tu sei in quest’acqua che scroscia rumorosa dalle gronde, penetra la terra come un dovere e scorre come un bacio di latte sulla pelle rossa delle tegole di questo petto che si fa casa. (via Grotta del Miracolo) Il mare, da qui, ricorda la schiena del cielo mentre si china a guardare i figli giocare come farfalle fra la terra e il muro. Questa terrazza serve a rubare i baci, a riposare lo sguardo sulla linea celeste dell’orizzonte, a sentire il sapore del vento che gonfia i costumi come vele, messi ad asciugare alla ringhiera per prendere il largo e chiudere il cuore da ogni lato. Luca Benassi è nato a Roma nel 1976 dove vive e lavora. Ha pubblicato sei raccolte di poesia, l’ultima delle quali istruzioni per la luce è uscita per Passigli nel 2021. Ha pubblicato antologie poetiche in giapponese (insieme alla poetessa Maki Strfield, edizione e-book, 2016), spagnolo (2018), macedone (edizione bilingue, 2019) e serbo (2019). Ha tradotto De Weg del poeta fiammingo Germain Droogenbroodt (Il Cammino, 2002). Nel 2010 ha dato alle stampe la raccolta di saggi critici Rivi strozzati poeti italiani negli anni duemila. Ha curato le opere antologiche complessive di Cristina Annino (Magnificat. Poesia 1969 – 2009, 2009), Achille Serrao (Percorsi nella poesia di Achille Serrao, 2013) e Dante Maffìa (La casa dei Falconi, poesia 1974-2014, 2014).
- Il senso storico della poesia: Democrazia di Alberto Toni (Ed. La Vita Felice -Collana Sguardi 2011)
Si tratta, come del resto ci suggerisce il titolo “Democrazia” di un poemetto di carattere civile che riporta all’inizio una introduzione nota-critica di Gabriela Fantato (curatrice della collana) e una post-fazione di Elio Pecora. Il Poemetto è diviso in cinque parti. La prima parte incomincia con una citazione tratta dal romanzo “Primavera di bellezza”di Beppe Fenoglio («Hai un’idea dei morti? Il bollettino dell’una dovrebbe già parlarne.»/«Vuoi che in un’ora li contino tutti?»/«Non lo riveleranno mai, credi a me, mai. »/ «Uno almeno di quei bestioni lo avranno abbattuto?): che ci introduce nella seconda guerra mondiale, ci rappresenta l’orrore della guerra con i suoi morti, ma anche la sua ipocrisia (non ce lo riveleranno mai). Tuttavia non è esatto definire un tempo perché una delle sensazioni più forti si provano leggendo il poemetto di Toni è proprio quella di ritrovarsi oltre il tempo, in una dimensione atemporale. La guerra, dunque, poco importa se è la seconda guerra mondiale, è la Guerra, il concetto stesso nella sua essenza ad essere preso in esame, sono tutte le guerre del mondo, quelle passate e quelle potenzialmente future. Qui, in questa prima parte la guerra viene esaminata, sezionata, condannata e perfino superata con una visione nel bene e nella speranza, non siamo infatti di fronte ad una poesia civile fine a se stessa, ma ad una poesia che definirei anche di “esortazione” nella quale è forte il senso della coscienza e la consapevolezza del bene da conquistare, un bene visto come fine verso il quale tendere e in cui credere: la bontà dedicata all’eroe nell’atto/supremo, il figlio ritrova il padre,/con lui scrive la legge, la ritaglia a/misura d’uomo, come non mai, una/fonte. Appare la figura delle “madri” portatrici di speranza, di nuove aperture, già consapevoli dell’assurdità della guerra: Qualcuno diceva la salvezza/ha bisogno del fuoco, le madri/in gesti di stizza verso i soldati/che non capiscono. Dentro la/tenda il puzzo è insopportabile./ Colpisce la poesia di Alberto Toni perché crea suggestioni. E’ una poesia che penetra, entra dentro, s’insinua, è una poesia che si “sente”, smuove le sensazioni, i sentimenti, le percezioni: non ci descrive la guerra, ce la fa vivere. Anche nella seconda parte l’apertura ci porta alla fine del conflitto: /…Un ragazzo sventola la bandiera/, ma soprattutto ci pone davanti a un fatto determinante: Democrazia è pazienza…./ In questo verso, in questa sintesi esemplare è racchiuso tutto il lavoro, il sacrificio, il credo, gli ideali che sono alla base della democrazia. La democrazia è una lunga, difficile e dolorosa conquista. Alberto Toni ci ne espone il senso profondo: Una cupola?Una guglia?Trova tu la consonanza/tra distruzione e pietra, tra fenomenali/conseguenze e cerchi magici della/comunità. La metteremo ai voti,/onesti, come abbiamo sempre fatto con gli altri./ Toni dunque ci ricorda che la democrazia non si fonda solo sulla conquista della libertà, ma che ha come fondamento l’onestà. Pazienza e onestà, tanto da sentire il bisogno di ripeterci verso la fine della seconda parte: Abbi pazienza./Per la democrazia abbi pazienza./… Nella terza parte si procede verso la meta , si cammina in avanti con sempre maggiore consapevolezza. E’ necessario guardare avanti senza soffermarsi a pensare a ciò che non necessità, bisogna concentrarsi e non recriminare su quello che non serve: Quello che non volevamo. Cancellalo,/toglilo dalla prospettiva: soltanto un peso,/e non abbiamo bisogno di ragioni/sfilacciate, tediose, ma di aria,/pellegrini./ E’ di nuovo una esortazione a non soffermarsi a guardare al negativo, ma a focalizzare lo sguardo verso la meta giusta, verso ciò che si vuole veramente, a non perdersi. Ma attenzione, non si può andare avanti senza ricordare il passato, senza tenerlo sempre bene in vista: …/ritaglia dalla ruota del camion il ritratto/di tua madre e tienilo sempre con te,/non puoi tentare il futuro senza il ritratto/di tua madre./ In questa terza sezione Alberto Toni si sofferma maggiormente sul significato stesso di democrazia, Anche il sorriso dovrà fondersi con il tuo./ Tutto il sacrificio nascosto, dirimere/ le questioni irrisolte, di sera davanti/l’uno all’altro, fino a quando non ci sarà/tregua. Non è forse racchiuso in questi versi il senso profondo della democrazia? sulla sua essenza: La quarta parte si apre con una citazione di P.P. Pasolini tratta da Transumanar e organizzar: - Come dice Euripide: «La democrazia consiste in queste semplici parole: chi ha qualche utile consiglio da dare alla sua patria?» - Siamo quindi un passo avanti nella ricostruzione, ma qui forte è il senso del sacrificio e del dolore. Cosa ci ha lasciato la guerra? Il dolore delle madri in lutto - e proprio per questo “Ora è tempo di lavoro” dice Toni. Tutti quei giovani morti non possono essere periti invano. Sono loro che hanno pagato per tutti e noi abbiamo il dovere di rendere sacre quelle morti attraverso il nostro lavoro per costruire un mondo di bene: “Chi ha qualcosa da dire di buono. Perché/ il sole è già alto e quello avanti sono un/ bel gruppo per l’avanguardia, le riserve/ ci sono, gli zaini, una bandiera rimediata./ E’ una sezione che porta alla riflessione e alla considerazione che la democrazia deve essere fatta con l’apporto di tutti, all’unisono. La quinta e ultima parte si apre con una citazione di De Amicis tratta dal libro Cuore: L’educazione di un popolo si giudica innanzi tutto dal contegno ch’egli tien per la strada. E’ dunque evidente qui il richiamo al senso civico di un popolo, alla sua capacità di relazionarsi in un contesto sociale. In questa parte è meno evidente il senso tragico, tuttavia rimane presente, anzi direi incombente, il dolore della guerra, il sacrificio della ricostruzione. Tutto il poemetto è un viaggio, una ricostruzione storica del sacrificio di tutti i popoli per la conquista di una società democratica e civile: dalla guerra, dal dolore estremo profondo si deve uscire e percorrere con pazienza e onestà un sentiero fatto di lavoro e di ideali per raggiungere la meta. In un certo senso, quindi, questo poemetto potrebbe essere definito “di carattere storico” perché esamina con occhio attento la storia dell’umanità rapportandola alla nostra condizione attuale e ci lancia un monito, un avviso, quasi una preghiera: non sprechiamo quello che è stato conquistato con tanto sacrificio. Cinzia Marulli da Democrazia di Alberto Toni […] Nel fango, esterrefatti, andiamo a raccoglierli, vuoi vedere la mia giacca a brandelli e ciò che resta come in un museo di solitudine e di guerra? A turno, la parola, da nord a sud in assemblea, anche le madri, ciò che resta in un giorno qualsiasi in una primavera appena cominciata e bella. Pulire la strada, rassettare, prendere la parola, perderla, dividere, tacere, il tonfo, la gamba che fa male, ora mi fermo e ascolto, ora che tutto è deciso. Quando scende la notte sui tetti e tutto è fermo, lì non basta, non serve, non altro spirito che fermare la diaspora e scendere a patti in ombra. […] Democrazia è pazienza, abbonda la pazienza sulle nostre teste, nei cuori, la scia lunga degli automezzi al confine. Un ragazzo sventola la bandiera. Audace per scelta forzata di libertà – lieti saranno i giorni, in festa anche nei campi liberati, e il confronto serrato con la popolazione, serve tutto. Dovunque si alza un cuore, là si conservano intatti gli accordi. Il viaggio è ancora lungo e troppi sono i pericoli. Abbiamo pazienza e la pazienza è il ramo sempreverde. […] Abbi pazienza. Per la democrazia abbi pazienza. Una rinuncia o forse la miccia, Nino, come l’altro, Tito, seduti adesso a forza dopo una perlustrazione, le scosse dell’automezzo. E le dita provate, il cappello, stai buono se no ci scoprono. C’è di mezzo la politica. Ma il cielo, il cielo viola di cenere e lapilli, dopo lascerai il bel canto di lei per unirti a noi? Lei, la bella musicista a cui aspiri. Ti teneva con il bel concerto mentre fuori imbruniva e gli altri discutevano. La poesia che incendia e non lo sai nemmeno è più graffiante di una lettera da casa. […] Alberto Toni si è laureato all'Università La Sapienza di Roma in Lettere con una tesi sull'opera di Sandro Penna. Vive a Roma dove lavora come insegnante. Negli anni '80 ha partecipato a numerose letture pubbliche, tra cui il Festival Internazionale dei Poeti del 1984 nell'ambito dell'Estate Romana e ha pubblicato su diverse riviste di poesia, tra cui Nuovi Argomenti, Arsenale, Prato Pagano, Tabula (con una prefazione di Amelia Rosselli). Con la raccolta poetica Liturgia delle ore ha conseguito il Premio Internazionale Eugenio Montale. Dal 1984 al 1989 ha collaborato alle pagine culturali di Paese Sera. È autore di varie raccolte di poesia, racconti, testi per il teatro. La sua poesia, come scrive Alberto Bertoni nell’Almanacco dello Specchio, Arnoldo Mondadori Editore, 2009, si muove dentro una "radice comune", configurandosi come esperienza di una religiosità laica, dentro gli avvenimenti della storia e un vissuto privato. È anche autore di teatro: Gabriele! Gabriele!, prima rappresentazione al Teatro Politecnico di Roma con la regia di Giuseppe Marini, 1997; nuovo allestimento: Laboratori Metis Teatro, Casa delle Culture, Roma, con l'amichevole partecipazione di Walter Toschi nel ruolo di Gabriele D'Annunzio, adattamento e regia di Alessia Oteri, 2014; del 2003 il monologo in versi Donna su una poltrona rossa, (Editrice Ianua), al Teatro Argot con Paola Lorenzoni nell'ambito della rassegna Vetrina di Scena sensibile, Roma 2004. Ha tradotto, tra gli altri, testi di E. Dickinson, T. S. Eliot, M. Leiris. Scrive di critica letteraria su periodici e quotidiani. Il 18 agosto 2016 a Ponte di Legno è stato inaugurato il sesto Totem della poesia con un suo testo intitolato Legno. Ha pubblicato: Poesia La chiara immagine, Rossi & Spera, Roma 1987 (Premio speciale opera prima L'isola di Arturo - Elsa Morante) Partenza, Empirìa, Roma 1988 Dogali, Empirìa, Roma 1997 (Premio Sandro Penna) Liturgia delle ore, Jaca Book, Milano 1998 (Premio internazionale Eugenio Montale) Teatralità dell'atto, Passigli, Firenze 2004 (Premio Pier Paolo Pasolini) Mare di dentro, Puntoacapo Editrice, Novi Ligure 2009 Alla lontana, alla prima luce del mondo, Jaca Book, Milano 2009 (finalista Premio Brancati, Premio Camaiore, Premio Dessì) ISBN 978-88-16-52037-0 Democrazia, La Vita Felice, Milano 2011 Un padre, in Almanacco dello Specchio 2010-2011, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2011 Polvere, sassi, oli, Il Bulino, Roma 2012 Mare di dentro e altre poesie, e-book, LaRecherche.it in collaborazione con Poesia 2.0, 2013 Et allons, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2013 Stone Green. Selected Poems 1980-2010 (traduzione di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti), Gradiva Publications, Stony Brook, New York 2014 Vivo così, Nomos Edizioni, Busto Arsizio 2014 (secondo premio Pontedilegno Poesia 2015; finalista premio Nazionale Frascati Poesia - Antonio Seccareccia) Il dolore, Samuele Editore, Fanna (PN) 2016 Narrativa Quanto è lungo il sempre, Manni, Lecce 2001 L'anima a Friburgo, Edup, Roma 2007 Saggistica Con Bassani verso Ferrara, Unicopli, Milano 2001 Livorno, Unicopli, Milano 2016
- Riflessioni sulla poesia di Claudio Damiani di Cinzia Marulli
Claudio Damiani: la poesia oltre il tempo e lo spazio - riflessioni sulla poesia di Claudio Damiani da "Poesie" (Fazi Editore) e "Sognando Li Po (Marietti). Parlare della poesia di Claudio Damiani è parlare di qualcosa che non ha confini, né geografici né temporali. In essa si ritrova tutta l’essenza del passato in una voce universale che non può essere relegata alla tradizione culturale e spirituale di un’unica civiltà, ma che scava invece nelle profondità della natura umana nella sua interezza. La poesia di Claudio, per sua natura, è dunque portata a trovare affinità con la poesia di altri tempi e luoghi proprio in virtù della sua universalità, propria tra l’altro, della vera e grande poesia. Claudio è lontano anni luce da essere poeta artefatto, la sua è una ricerca molto più profonda, vera, più vicina all’essenza. Non mi ha meravigliato dunque, leggere nella prefazione di Marco Lodoli al libro “Poesie” edito da Fazi le seguenti parole: Claudio leggeva Pascoli, Orazio e Caproni, sdegnava ogni moda letteraria, cercando una lingua che potesse parlare di ogni cosa senza mai tradire il vero. Prendiamo ad esempio una radicatissima tradizione orientale e in particolare cinese che imponeva agli aspiranti artisti, prima di potersi esprimete autonomamente, di copiare e ricopiare i grandi maestri del passato affinché assorbissero la loro arte, la loro spiritualità, la loro essenza facendola così tornare a vivere nelle nuove opere. Anche Borges, nel corso di alcune lezioni che tenne alla Columbia University e che sono state trascritte per intero e pubblicate ne “L’invenzione della parola” (Mondadori) richiama, seppur diversamente, questo concetto: Borges ci dice infatti che citare o addirittura usare per un proprio scritto un verso di un grande poeta non vuol dire copiarlo, perché, se ciò ci viene naturale, significa che quel verso è entrato talmente tanto dentro di noi da diventare nostro. Abbiamo in definitiva assorbito l’essenza del nostro grande maestro che quindi rivive in noi. Ecco, tutto questo “essere” e “rinascere” è forte nella poesia di Claudio Damiani, il suo richiamo ai classici e in particolare ad Orazio trova affinità e parallelismi anche nella poesia cinese di epoca t’ang che ha infatti molti accenni oraziani con l’invito al “carpe diem”, come scrive Riccardo Bertuccioli nella sua “Storia della letteratura cinese” edita da Sansoni. Ma forte e profonda è anche l’affinità con il pensiero taoista, anch’esso presente nella poesia cinese di epoca t’ang ed in particolare in Li Po (701-762). Il taoismo infatti esalta la spontaneità e la naturalezza; per esso il Tao, ovvero il principio supremo, la legge universale, esiste in tutte le cose e tutte le cose esistono nel Tao; fino a che le cose avvengono naturalmente tutto è armonico, la vita è vissuta bene solo quando l’uomo è in completa armonia con l’universo e il bene non è compiuto dall’azione spinta dal desiderio, ma dalla “inazione”, “wu-wei”, che è ispirata alla semplicità, a lasciare che le cose seguano le leggi universali della natura. Riprendo dunque alcune parole della prefazione di Marco Lodoli che mi hanno molto colpito in tal senso. Lodoli racconta di quando lui, Claudio Damiani e altri amici artisti e poeti avevano affittato un locale per aprire una galleria d’arte nel rione Monti di Roma e dice testualmente: Ricordo una discussione su come organizzare lo spazio che avevamo affittato.... Damiani parlava invece di uno spazio concavo, bianco, puro che accogliendo il mondo intero gli desse una forma chiara. Non bisognava fare niente, solo imbiancare e aspettare che tutto lentamente si definisse: Ecco quindi che ritroviamo in pieno, in modo assolutamente spontaneo, nel comportamento, nel pensiero di Claudio Damiani questo desiderio di abbandonarsi alle leggi naturali dell’universo, al suo armonico divenire. E questo pensiero che è coerente con la vita del poeta è inevitabilmente, anzi direi naturalmente coerente nella sua poesia nella quale si respira un profondo senso di armonia, dove il divenire del mondo e dell’esistenza dell’uomo è cantato con la stessa semplicità e naturalezza tanto invocata dai taoisti, dove l’amore per la natura e lo stupore di fronte alla bellezza dell’universo è sincero e puro come quello di un bambino. Come meravigliarsi allora del grande amore nato tra Claudio Damiani e la poesia cinese T’ang che lui ha conosciuto da ventenne nell’ottima traduzione di Benedikter (300 poesie t’ang), ed in particolare dalla figura e dalla poesia di Li Po, il poeta taoista per eccellenza? Attenzione, non si tratta di influssi, ma di parallelismi , di comunione di essenze. Claudio ha, molto probabilmente, letto le poesie di Li Po, ma non si è limitato a capirle, bensì le ha “sentite” perché in lui era insita la stessa universale ricerca di armonica semplicità. E tanto è stato felice nel ritrovare tale assonanza che ha sentito il bisogno di scrivere e dedicare una sua intera opera a Li Po, intitolata “Sognando Li Po” richiamando non solo il titolo di una famosissima poesia di Tu Fu, contemporaneo e amico di Li Po, ma anche esprimendo così il sentimento che ha provato quando è entrato in contatto con la poesia cinese. Mi sembra importante al riguardo citare proprio ciò che ha scritto lo stesso Claudio Damiani nella premessa a Li Po: “Ho amato la poesia cinese come qualcosa che mi spingeva oltre il mio tempo, in un futuro antico che m’appariva come un sogno...” Non mi resta che ringraziare Claudio Damiani per il dono dei suoi versi. Cinzia Marulli da Sognando Li Po L'addio A un certo punto, giunti su un'altura dove c'erano quattro baracche scesero dal carro. Cadeva ancora la neve dal cielo, e dai rami di un grosso pino sopra le loro teste. Il carrettiere slegò i cavalli. I due poeti e il seguito presero stanza nella locanda affumicata. Tutta la notte Li Po e Tu Fu alzarono le coppe; gli ufficiali del seguito s'erano presto addormentati, ma loro ancora amabilmente conversavano. Tu Fu parlò della sua casa natale, dell'infanzia felice nella natura, dei giochi, Li Po parlò della capitale, di feste e danze, dei giorni fugaci della giovinezza. Ed ecco si fece bianca la finestra dell'alba, una luce scialba, un biancore irreale penetrò nella stanza. Parlarono ancora dei loro morti, parenti e amici che avevano dovuto abbandonare. A un tratto Li Po si alzò, Tu Fu stette ancora seduto per un po', poi anche lui si alzò, stettero in piedi per molto tempo in silenzio, mentre tutti dormivano, nel silenzio della locanda. La neve fuori aveva smesso di cadere e il vento si era quietato. Li Po prese la bisaccia e s'incamminò sulla strada bianca. Da Il fico sulla fortezza Il fico sulla fortezza ha vita molto precaria perchè quando faranno i restauri sarà certamente tagliato. Però sta tranquillo sotto la luce del sole distendendo il suo ampio mantello disuguale, incurante dell’estetica, se ne frega di stare così in alto non soffre di vertigini si lascia accarezzare dalla luce e dalle brezze tiepide sente la nebbia, sente gli uccelli che parlottano tra i suoi rami. Claudio Damiani è nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo. Vive a Roma dall'infanzia. Ha pubblicato le raccolte poetiche Fraturno (Abete,1987), La mia casa (Pegaso, 1994, Premio Dario Bellezza), La miniera (Fazi, 1997, Premio Metauro), Eroi (Fazi, 2000, Premio Aleramo, Premio Montale, Premio Frascati), Attorno al fuoco (Avagliano, 2006, finalista Premio Viareggio, Premio Mario Luzi, Premio Violani Landi, Premio Unione Lettori), Sognando Li Po (Marietti, 2008, Premio Lerici Pea, Premio Volterra Ultima Frontiera, Premio Borgo di Alberona, Premio Alpi Apuane), Il fico sulla fortezza (Fazi, 2012, Premio Arenzano, Premio Camaiore, Premio Brancati, finalista vincitore Premio Dessì, Premio Elena Violani Landi), Ode al monte Soratte, con nove disegni di Giuseppe Salvatori (Fuorilinea 2015), Cieli celesti (Fazi, 2016). Nel 2010 è uscita un'antologia di poesie curata da Marco Lodoli e comprendente testi scritti dal 1984 al 2010 (Poesie, Fazi, Premio Prata La Poesia in Italia, Premio Laurentum) Ha pubblicato di teatro: Il Rapimento di Proserpina (Prato Pagano, nn. 4-5, Il Melograno, 1987) e Ninfale (Lepisma, 2013). Ha curato i volumi: Almanacco di Primavera. Arte e poesia (L'Attico Editore, 1992); Orazio, Arte poetica, con interventi di autori contemporanei (Fazi, 1995); Le più belle poesie di Trilussa (Mondadori, 2000). E' stato tra i fondatori della rivista letteraria Braci (1980-84). Suoi testi sono stati tradotti in diverse lingue (tra cui principalmente spagnolo, inglese, serbo, sloveno, rumeno) e compaiono in molte antologie italiane (anche scolastiche) e straniere. Nel 2016 è uscito il saggio La difficile facilità. Appunti per un laboratorio di poesia, Lantana Editore; Di recente pubblicazione (gennaio 2017) il saggio L'era nuova. Pascoli e i poeti di oggi, a cura di Andrea Gareffi e Claudio Damiani, (LiberAria Edizioni).